martedì 25 febbraio 2020

Non c'è posto.


Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con molti più nodi di quanti ne sarebbero necessari. Ha bisogno di tempo. Deve, necessariamente, prendere tempo. Sfila i remi dagli scalmi e li ripone con calma lungo le fiancate, uno per parte. Riordina le reti, poi le lenze da palamito. Impila le nasse una sull’altra. Gratta via le squame incollate sul bordo di dritta, indugiando con l’unghia sul legno cotto dal sole.
Terminato di rassettare lo scafo, null’altro rimane al vecchio pescatore che rassegnarsi ad alzare il capo verso chi lo attende sui legni dell’approdo e, arreso, dire soltanto: Anna; si trattiene giusto un attimo prima di salutarla con il nomignolo che usavano da ragazzini, quando si davano appuntamento in quello stesso punto del fiume, settant’anni prima. Sei la stessa di allora; immutabile, pensa in silenzio.
Anna, di rimando, usa una parola soltanto: ciao, dice. E nell'intonazione, nell'intenzione di quel saluto, nel modo che ha di inclinare il capo per osservarlo meglio illuminato dalla luce ultima del giorno, ci mette tutto quello che avrebbe voluto dirgli, senza riuscirci. Non sei cambiato per nulla, pensa in silenzio. Sei immutabile, pensa.
Il vecchio tace. Non parla perché trema. Non vuole che lei se ne accorga.
Trema, pensa lei, ha paura che me ne accorga.
Così si decide per prima, come sempre è stato: - Perché sei solo, Ale? Mi hai sempre detto che non ci si va, da soli, per mare. E’ pericoloso.
Al vecchio torna in mente quella volta in cui, mentre cercavano un posto adatto per pescare, Anna aveva cominciato a cantare, all’improvviso. Quella voce lo aveva commosso fino al pianto e aveva dovuto dare la colpa di quelle lacrime al vento e al sale, perché si vergognava.
Ti dicevo così soltanto per portarti con me, soltanto per questo, pensa. Questa sarebbe stata questa la risposta giusta, invece risponde, brusco: - non c’è posto per due persone, su questa vecchia barca.
Ho sempre navigato solo. Avrebbe voluto aggiungere: dopo di te, ma non lo fa, perché gli manca, come sempre, il coraggio della parola definitiva.
Anna gli tende la mano, lo aiuta a montare sul molo.
Nemmeno le tue mani sono cambiate, amore mio, pensano, muti, nello stesso istante.
Si guardano un momento, si dicono soltanto ciao.
Non si vedranno più.

martedì 19 marzo 2019

Toni Merdona


Quando esce è primavera.

In realtà è un mattino di febbraio, ma così tiepido e terso che sembra maggio.

Una brezza leggera sale dai vecchi bastioni lungo il viale che costeggia la prigione, muove appena i rami dei pini piantati lungo la passeggiata e porta con sè l’odore del mare accucciato più in basso, stretto nell’abbraccio del golfo.

Toni se ne sta immobile, perchè un conto era annusarla dalla finestra della cella e un altro ritrovarsela addosso, questa realtà improvvisa, così diversa da quella che si era costretto ad immaginare: aveva messo in conto il freddo, l’autunno, l’emozione di un abbraccio e del non sapere che dire a chi avrebbe rivisto dopo dieci anni. Invece trova il sole che accende di giallo i fiori delle acetoselle sbocciate prima del tempo e nessuno in strada ad aspettarlo; come poteva essere stato così stupido da illudersi del contrario? L’evidenza del silenzio, del brusio di fondo del traffico accompagnato da nessuna voce, lo inchiodano al marciapiede fino a che il tonfo della porta carraia non lo spinge in avanti,  quasi fosse una manata sulla schiena, di quelle che lo obbligavano al tuffo nell’acqua blu della cala del faro, a bomba, quand’era ragazzino. E infatti si volta e guarda indietro, e quasi si aspetta di vedere sbucare le facce sghignazzanti di Marcellino, Baballotti e Ginetto, che gli fanno il verso dallo scoglio dieci metri più in alto mentre lui riprende fiato dopo il salto e l'apnea. Invece non c’è nessuno, a parte la guardia di ronda sul muro perimetrale del carcere che con la mano gli fa cenno: ahiò, vai! Bairindi! E lui si rassegna ad andare.

Abita un vicolo della Marina, subito dietro il porto, un budello cieco e senza uscita dove la luce non entra nemmeno per sbaglio e dove lo attende lo stesso odore di muffa di sempre, ispessito dall’assenza, dal buio e dal mancato ricambio d’aria. Si butta sul letto così com’è, vestito, ancora puzzolente di cella: bentornato, Toni Merdona, si dice. E ride.

Nel quartiere l’hanno sempre chiamato così per via della mania di indossare soltanto camicie nere sbottonate sul petto e il colletto lungo come quelle del ballerino del film solo che al contrario di Toni Manero, lui, Toni Merdona, era basso, molto basso, e la carnagione scura e i capelli nerissimi, impomatati e portati alla mascagna, gli avevano sempre dato un’aria da sorcio. Ma c’era anche un altro motivo all'origine del suo soprannome. Non era mai stato alto, questo bisognava ammetterlo, ma leggero e agile sì, e forte; arrembare i palazzotti liberty e razziare gli appartamenti dei signorotti per lui era sempre stato un gioco da ragazzi: puntava i piedi sul muro, artigliava le grondaie con le mani e in pochi secondi spariva oltre i balconcini di ferro battuto. Toni Merdona topo lo era stato davvero, d’appartamento però. Avrebbero potuto affibbiargli un nomignolo da supereroe, ma si sa com'è nel quartiere, al timore ossequioso del mito si preferiva di gran lunga la risata irriverente dello sberleffo. 

Dorme fino al mattino un sonno senza sogni. Quando si sveglia scopre di non avere nessuna voglia di uscire per strada, la luce del giorno lo infastidisce, si costringe a farlo. I giorni successivi prende a ciondolare sul lungoporto, traccheggia su una panchina, la faccia al sole e gli occhi chiusi: asciugo le ossa, risponde a chi gli rivolge un cenno; il sabato fa un salto al mercato, alla domenica tenta una passeggiata al vecchio borgo, ma è un'anima in pena, si stufa in fretta, rientra in casa. Dopo qualche tempo prende l'abitudine di andarsene in giro di notte, al primo buio si affaccia all’uscita del vicolo e lancia rapidi sguardi prima a destra, poi a sinistra e quando alza il muso per guardare il cielo, cercando la luna, sembra annusare l’aria per decidere se sia il caso di muoversi o rientrare in tana. Risale rapido le vie più strette, rasente al muro, via Lepanto, che è la sua preferita, poi via Torino, scavalca viale Regina Margherita, taglia piazza Costituzione e si inabissa nei vicoli di Villanova, scomparendo alla vista. Ma dove se ne va Toni, ogni notte, si chiedono i compagni di strada, gli avanzi di galera, gli amici del quartiere, dove va Toni, si domandano al bar quelli che non sono ubriachi, nemmeno si ferma per una meringa da Tramer, era fissato, dove va Toni, se nemmeno ruba più, boh da quando è uscito è cambiato, non parla più, has biu? Lui cammina a testa bassa, veloce, neppure risponde ai pochi che incontrandolo lanciano un saluto che pare un'esortazione o peggio, una domanda -oh Toni!- e poi lo osservano sgusciare via scuotendo il capo, lo seguono con lo sguardo finchè non gira l'angolo, il carcere, pensano, balordo, il carcere. Toni raggiunge la strada dei giardini, perché è veloce Toni, mica ce la fai a stargli dietro, in quella via c’è un palazzotto di due piani, gli ci vogliono meno di dieci secondi per arrampicarsi e raggiungere il secondo, scavalcare il balconcino, forzare la finestra, entrare senza far rumore in quella casa che conosce così bene. Attraversa l’oscurità del piccolo salone, fiancheggia la libreria stracolma di volumi, percorre un piccolo corridoio, accede alla camera da letto. In perfetto silenzio siede sulla poltrona e la guarda dormire. Qualche giorno prima l’ha incontrata per caso, vicino al mercato: lei non se n'è neppure accorta, ma lui sì, ne ha avvertito la presenza ancora prima di vederla avanzare tra i banchi di frutta trascinando il carrellino della spesa, lo sguardo celato dietro larghi occhiali da sole. In tutti quegli anni l'ha attesa ogni giorno, ha sperato che lo andasse a trovare almeno una volta, ma lei era svanita nel nulla senza una parola, un saluto. Le aveva scritto, ma ai suoi perché lei aveva opposto un silenzio assoluto. Si era arreso all'evidenza di quell'assenza irrimediabile soltanto quando si era ritrovato a fissare la desolazione del marciapiede vuoto all'uscita della prigione. Lei non c'era, e per un momento aveva avuto la tentazione di voltarsi e picchiare i pugni sulla porta di ferro, che lo facessero rientrare, che non c'è gabbia peggiore della solitudine. Ma poi si era avviato, perché  alla fine tutti ci costringiamo a percorrere strade che non conosciamo, e ora siede in questa stanza dove un tempo molto prima di adesso ha dormito anche lui, e nella penombra rischiarata appena dalla luce arancione dei lampioni osserva i suoi capelli chiari sparsi sul cuscino, le spalle minute, il polso esilissimo, la curva precisa della schiena, la linea perfetta delle sopracciglia, le palpebre chiuse. Ricorda l’ultima sera, dieci anni prima, quando le aveva detto che occhi come i suoi non ne aveva mai visto, -sembrano un bosco, aveva detto- e lei aveva riso e aveva riso anche lui, perchè era una frase che col resto del discorso non c’entrava nulla, ma gli era venuta così, improvvisa, insopprimibile, come l’energia che ora ogni notte lo costringeva a quella follia. Trattiene il respiro per paura di svegliarla, ma non serve, lei dorme ogni volta un sonno profondo che sembra invincibile. Invece no, una notte lo un tuono la fa sobbalzare e quando accade se lo ritrova davanti, ha un sussulto, non grida, gli occhi aperti nel buio, profondi come la notte che inghiotte ogni cosa. Lui fa un gesto con le mani, i palmi rivolti verso di lei come dire, non avere paura, amore mio, non avere paura, vorrebbe dire, invece dice solo: sempre gli stessi, e lei non capisce a cosa si riferisce, se parli di loro due, o di chissà che altro. - Cosa Toni, cosa è sempre lo stesso?- fa in tempo a chiedere, e lui risponde con un sorriso sghembo senza riuscire a parlare, come sempre gli capita con le domande improvvise, in un secondo è già in piedi, di spalle, corre verso la finestra, la pioggia è fitta, il ferro battuto viscido, scavalca il balconcino.

-Gli stessi occhi di bosco- è l’ultimo pensiero che fa.

Quando lo trovano, immobile, sul marciapiede, Toni sorride e sembra che dorma.   

-Non può essere caduto, non Toni, Toni no-, è quello che dicono tutti al commissario, agli agenti che formano un cordone per tenere lontano i curiosi, ai necrofori comunali che lo caricano in una cassa di zinco, prima di portarlo via.

Gli occhiali da sole, dicono, lei non li ha tolti più, fino all’ultimo giorno, dicono.


"E debbo stare attento a non cadere nel vino

 o finir dentro ai tuoi occhi se mi vieni più vicino
 La notte ha il suo profumo e puoi cascarci dentro
 che non ti vede nessuno
 Ma per uno come me, poveretto, che voleva prenderti per mano
 e cascare dentro un letto
 che pena, che nostalgia, non guardarti negli occhi.
 Almeno non ti avessi incontrato,
 io che qui sto morendo,
 e tu che mangi il gelato"

domenica 10 febbraio 2019

Nessuna tu

Tante donne e nessuna tu.
A Sarajevo duecentomila donne
e nessuna tu.
In Europa duecento milioni di donne
e nessuna tu.
Nel mondo miliardi di donne
e nessuna tu. 
Izet Sarajlic

mercoledì 23 gennaio 2019

Il cassetto

-Come un cane - pensa, come un cane che scava la terra.
Inginocchiato sul pavimento, chino sul cassetto più basso dell’armadietto, rovista tra gli oggetti accumulati nel corso del tempo. Cerca.
-Eppure dev’essere qui, da qualche parte- mormora.
Trova una piccola lampada da lettura, a batteria, di quelle pensate per leggere al buio senza disturbare nessuno. Prova ad accenderla diverse volte, non funziona più, deve essersi scaricata o l'interruttore guastato. Alla fine si arrende, la mette via. Le prime volte si erano visti in spiaggia, di notte. La raggiungeva a qualsiasi ora glielo chiedesse, lei stava lì da prima, in compagnia di un’amica. A lui non importava che non fossero soli. Voleva solo starle vicino e ascoltare quella voce nuova confondersi con lo sciabordio dell’acqua sulla battigia. Una carezza. Alle volte la luna rischiarava il buio di una luce tenue, pallida, come quella della lampada che aveva appena cercato di accendere. Nella penombra, di sottecchi, la guardava: i tratti del suo volto distinguibili appena, un bozzetto a matita sul foglio bianco della sabbia.
Un fascio di lettere, legate strette con un filo di lana viola, grossa. Durante primi tempi del suo soggiorno in quel luogo ne riceveva una a settimana. Rispondeva sempre, perchè scrivere gli dava il tempo di formulare le frasi nel modo giusto, gli consentiva di rispondere in modo sensato alla domande che gli venivano poste e di farne a sua volta di appropriate, non come quando parlava con le persone e non era mai preparato alle cose corrette da dire, che gli venivano in mente sempre tardi, a volte giorni, altre settimane dopo, quando ormai non servivano. - Le cose giuste, le risposte giuste -si ripeteva- mi sono venute in mente quando già non c'eri più -. Quando tutto capita all'improvviso io non ho mai le parole pronte, pensava, di sè. - Non sei nemmeno qui - sussurra, mettendo da parte quei fogli ingialliti.
Della carta da regalo, rossa, un nastro dorato, sfilacciato e ingarbugliato. Una volta si erano incontrati in un bar, a dicembre, il penultimo giorno dell’anno, quando tutto tra loro era cambiato e lui lo aveva capito, anche se ancora non ci si era abituato. Voleva darle delle cose che aveva comprato per lei durante un viaggio, era arrivato in anticipo ma dentro il locale il caldo era insopportabile e poi gli dispiaceva farsi trovare già seduto, così l'aveva aspettata fuori. Era sbucata dall’angolo della via, aveva sorriso e lui aveva pensato che non ci fosse, al mondo, niente di più bello. Anche lei aveva un regalo da consegnargli, un libro, e lui oltre quello aveva conservato la carta che lo conteneva, rossa, e il nastro, dorato: gli stessi che ora si rigirava tra le mani mentre gli ritornava alla mente con quanta accuratezza fosse stato confezionato quel dono, e quanto invece fossero maldestri i pacchetti che lui aveva preparato per lei. Ricordava di come si tormentasse le mani, che non riusciva tenere ferme, e come queste torturassero i capelli, raccogliendoli dietro la nuca per portarli subito dopo sul lato destro del collo, a formare una piccola coda. Aveva pensato che fosse nervosa, d'altronde lo era anche lui, molto, e poi che fosse bellissima, ancora una volta, e anche: - ho attraversato i continenti per rendermi conto che l’unica cosa che importa è sempre stata qui, ad un passo -. Ricordava che aveva delle cose da chiederle, domande importanti da fare -perché si fosse allontanata da lui, per esempio-, ma che tutta la meraviglia che provava nel guardarla gli aveva tappato la bocca. Ricordava il tempo passato in fretta, il momento di andare via, il saluto veloce, la ricordava girare di nuovo l’angolo della via e scomparire alla vista: il passo inconfondibile, le spalle minute, i capelli sulla schiena, il cappotto blu.
-Dove sei?- pensa, mentre continua a cercare nel cassetto. Dove sei?  
I taccuini su cui aveva tenuto una sorta di diario, durante il viaggio in Nepal. Ricordava quanto gli fosse mancata durante quel mese solitario, di come fosse deciso a confessarle tutto una volta rientrato, di quanto pensarla lo avesse salvato dalla disperazione nei momenti più duri, di solitudine assoluta, di fatica, di scoramento, di freddo: quando rientro ci sei tu, pensava, per trovare la forza di un altro passo nel gelo. Ce l’aveva fatta; più che raggiungere la cima che aveva programmato di scalare era andato incontro a lei, immaginando il momento in cui l’avrebbe rivista. Legge due frasi che si era appuntato: - domani ti bacio-, trova scritto, una frase che poi era diventata un racconto. E poi una citazione tratta da un romanzo pessimo, ma che mai come in quel momento gli era sembrata calzante: “Hai presente quando, dopo una delusione, costruisci un muro tra il tuo cuore e il resto del mondo? Quel muro può durare anni, e diventare sempre più spesso...Ecco, l’amore è il momento esatto in cui senti crac”. Quel crac lo aveva avvertito distintamente poco prima di partire, ricordava ancora il giorno, il 6 di ottobre del 2018 quando una sera, mentre cenavano con Marta, lei gli aveva preso la mano, tenendola stretta. Se fossero stati soli l’avrebbe baciata, così avrebbe pensato per tutti gli anni a seguire. Poi era partito e durante il viaggio si era accorto che  il muro che aveva eretto era stato spazzato via. Quando era rientrato l’aveva cercata ma lei non c’era più.
Mette via i block notes. Continua a rovistare il cassetto, il pavimento è ingombro di oggetti, la voce troppo alta è un mantra che ripete all’infinito: - non ci sei, non ci sei, non ci sei-.
-Che fai ancora sveglio Ale? Dai, che è tardi, è ora di andare a dormire-.

La voce del giovane lo scuote. Solleva il capo, gli rivolge uno sguardo implorante.
-Non la trovo, Guido, mi aiuti?-
-Ma lì non c’è Ale, lo sai. Tutti i giorni con ‘sta storia. Dai domattina riproviamo-.
-Ma io ho delle cose da chiederle Guido, lo sai, no?. Guarda me le sono pure scritte, così non me le scordo. Mi dimentico tutto-.
- E che non me lo ricordo? Me lo ripeti ogni giorno. Dai domani ti do una mano, però ora è tardi, svegli tutti con ‘sto casino-.
-Va bene, grazie. Me te lo ricordi come si chiama? Sennò come fai a trovarla?
- Sì, Occhi di bosco, si chiama.
- Bravo, e perchè?
-Perchè ha gli occhi…-
- ...del verde profondo dell’ombra dei boschi e delle foglie di quercia nelle sere d’estate - finisce il vecchio. -Non gliel’ ho mai detto, Guido. Neppure che l’amo, non ho fatto in tempo-.
-Lo so, domani continuiamo a cercare, va bene? Chiudi quel cassetto, ora.
-Va bene Guido, buonanotte.
-Buona notte, Ale.
Il vecchio a fatica si rimette in piedi, scivola sotto le coperte tirandole fin sotto il mento. Nel buio cerca il suo profilo nella penombra, come faceva sulla spiaggia, molto tempo prima di adesso. Li chiude sperando di incontrarla, almeno nel sonno. -Ho troppe cose da dirti-, è l’ultimo pensiero che fa.
Guido spegne le luci dell’andito, raggiunge i colleghi per un caffè.
Nel reparto piomba il silenzio.








martedì 8 gennaio 2019

Tracce



- Il giorno più bello secondo me è stato il 6 di ottobre del 2018.
- Sì? E perché?
- Perché mi hai preso per mano, e non lo avevi mai fatto.
- Davvero?

Fingeva di non ricordare, sorrideva.

- Sì, davvero, mentre parlavamo con Marta, eravamo solo io, te e lei. Mi hai preso la mano e io non ho avuto la forza di guardarti, per paura che ti accorgessi di tutto quello che non avevo avuto il coraggio di dirti. Non ho avuto il coraggio. E’ stato questo, il motivo?
- Il motivo di che? Poi non lo so. Non me lo ricordo.
- E allora ti ricorderai del cane, te lo ricordi il cane, quel giorno?
- No, quale cane?
- Billy, si chiamava. Era un cucciolo che si divertiva a giocare azzannandomi le caviglie. Me le ha fatte a pezzi, ero pieno di buchi, ti ricordi?

Rise di gusto. Era bellissima, Occhi di bosco. Disse solo: e tu? Che hai fatto? Lo sapeva benissimo, ma la divertiva sempre sentirmelo raccontare.

- Nulla, non riuscivo a mandarlo via, mi inseguiva tra le pietre, in mezzo a tutte quelle rovine, nell'erba alta e ogni tre passi mi mordeva. Tu mi dicevi di picchiarlo, ma io non sapevo farlo. Poi se l’è presa con le capre, vicino al pozzo sacro, e ci ha lasciato in pace. C’era profumo d’erba in fiore sull’altipiano della Giara, un profumo buonissimo che io non riuscivo ad identificare, a capire da quale pianta provenisse. Me lo avevi chiesto, ma non ho saputo risponderti. Ero troppo impegnato a guardare te, che camminavi contro il cielo rosso del tramonto mentre si faceva buio, intorno. Ti ho mostrato l'elicriso, il frutto del melone asinino che era acerbo e non sono riuscito a fare scoppiare. C’è stato un momento preciso in cui ti avrei voluta baciare, mentre sedevamo tra i ruderi della capanna delle riunioni, ma sei andata via. Avrei voluto baciarti, ma tu camminavi veloce, sei sempre stata più veloce. Io arrancavo dieci metri indietro, più lento, il cane mi intralciava il passo, il fiato inciampava in gola, il cuore invece nel petto. In quasi tutte le foto che ho sei ritratta di spalle, cammini davanti a me. Mi piaceva guardarti, senza che te ne potessi accorgere. Come faccio ora, in fondo.
- Avresti dovuto raggiungermi. Forse ti avrei baciato anch’io.
- E la bambina, la ricordi la bambina?
- No quale bambina?
- Ma possibile che non ti ricordi proprio niente?
- No, aiutami.
- Dunque avevamo appena visitato quel nuraghe bellissimo, Piscu, si chiama: pietre bianche contro un cielo di un azzurro impossibile, quella luce da prateria sudamericana che hanno solo certe giornate d' ottobre, in Marmilla. Nella casa di un paesino, da una amica tua, c’era una bambina piccolissima, camminava da poco: prima di uscire a giocare in giardino si è voltata e mi ha teso la mano come per dire: vieni, andiamo? L’avevo appena conosciuta e già mi prendeva per mano. Come avresti fatto tu qualche ora dopo, ma ancora non potevo saperlo. Due mani così belle in un giorno solo. Non sarebbe successo più, in seguito, ma neppure quello, potevo sapere, allora.
- E quindi?
- Ecco quando la bambina mi ha dato la mano tu mi hai chiesto: hai intenzione di far innamorare qualcun altro, oggi?

Io ancora ci penso a questa cosa. Mi pare di vederti, lo sai? Perché ti ho risposto soltanto: non lo so. Invece avrei dovuto dirti: sì, te. Ma lo sai com’è, quando tutto capita all’improvviso, io non ho mai le parole pronte, mai. Non le ho mai avute, e con te neppure. Non me lo perdono.

- Ma è successo tutto lo stesso giorno?
- Sì lo stesso giorno. La gita che non avevamo programmato, un gregge enorme che attraversa la strada, noi due che ridiamo, il viaggio senza nessuna meta, la bambina, il cane, il villaggio nuragico tutto per noi, sul far della sera, il custode che ci lascia passare gratis e poi ci guarda andar via seguendoci con quegli occhi tristi, gialli dal troppo alcool, il viaggio di rientro nel buio della tua auto, la luce blu dell’autoradio, la cena a casa, improvvista, io che ti regalo una maglia e un ciondolo che ti avevo comprato quella mattina stessa, senza neppure sapere che ti avrei vista, la tua mano nella mia, improvvisa. Mi era capitato altre volte, di pensarti un secondo prima che mi scrivessi e trovare la conferma nello squillo del telefono che si illuminava di un tuo messaggio. Sapevo che c’eri prima che ci fossi davvero. Mi è capitato altre volte, in seguito, di saperti vicina prima ancora di vederti. Ma non c’eri più, eri già irraggiungibile.
- E poi?
- E poi nulla, è svanito tutto senza lasciare traccia. Sei andata via. E ancora mi chiedo perché.
- Non è vero, se ne parli ancora una traccia c’è. Nemmeno le cicatrici, ti sono restate?
- Che cicatrici?
- Quelle del cane. Dei morsi di Billy.
- No, le ferite hanno fatto delle piccole croste che dopo qualche giorno si sono staccate. Sono rimasti dei segni di pelle nuova, appena più chiara, ma dopo un po’ sono andati via anche quelli. Senza lasciare traccia.

A notte fonda, il vecchio decide di andare a dormire. Si alza dal tavolo tondo sul quale, quarant'anni prima, mentre lui parlava distratto, lei gli aveva tenuto la mano. Prima di avviarsi stancamente verso la camera da letto, rimette in tasca un'immagine che avevano scattato quel giorno: un piccolo nuraghe si stagliava contro un cielo blu. Devo smetterla di parlare da solo, pensa.












Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...