Come.
Una.
Ossessione.
Così, allo stesso modo, quelle vecchie fotografie in bianco e nero comparivano dappertutto.
A pensarci bene è probabile che ciascun abitante di questa città ne possedesse almeno una; a pensarci ancora meglio, ci si innamorava di quelle stampe fin da bambini e perfino chi al tempo di quegli scatti non era ancora nato oppure era troppo giovane per ricordare quei giorni gloriosi di primavera, finiva per prendersene cura come se fosse stato anch’egli presente a quegli avvenimenti.
Chi conservava quelle immagini, comunque, il più delle volte le esponeva in bella vista; nel caso contrario invece, i più riservati, sacerdoti di ricordi, le custodivano gelosamente come fossero reliquie, preservandole dalla troppa luce e dal calore, curando che la polvere non le rovinasse irrimediabilmente. Chiunque abbandonasse i propri passi alle strade di quest’isola, dai grandi centri ai piccoli villaggi, non poteva fare a meno di notarle appese ovunque, incorniciate pomposamente, impreziosite da coccarde bicolori o semplicemente sigillate tra due lastre di vetro o ancora più spartanamente appiccicate con del nastro adesivo su qualsiasi superficie utile: dalle vetrine dei bar agli uffici, dalle officine alle edicole, dai saloni dei barbieri agli studi fotografici, fino ai box dei mercati civici dove condividevano la posizione più importante e più in vista con Cristi, Santi e Madonne, e insieme vegliavano su clienti, pesci da zuppa, molluschi, polpi e murene; e sugli incassi, ovviamente. In tutte, lui era il primo da sinistra, in piedi. Volto asciutto e braccia incrociate, strette sul petto. Elegante, perfino in quella posa statica. Magrissimo, scuro, austero. Tra tutti gli altri uomini in maglia bianca, era il più serio.
Ma era lo sguardo, in realtà, a colpirti lo stomaco spezzando il fiato come un pugno a tradimento: ad una prima occhiata sarebbe potuto sembrare triste, ma chiunque si fosse abbandonato ad una osservazione più attenta, invece, lo avrebbe scoperto meditabondo, concentrato su qualcosa sospeso alle spalle dei fotografi schierati di fronte. Perso oltre il prato verde, oltre il pubblico trepidante, oltre le gradinate di cemento e legno e tubi innocenti. Perso in un altro luogo. In un altro tempo.
In questo luogo e in questo tempo, invece, a quarant’anni di distanza da quegli istanti immortalati dalle macchine fotografiche, ci accorgiamo della sua presenza quando ancora i palazzi attorno lo nascondono alla nostra vista.
- Il macaco non vede la sua coda - urla.
Grazie all’inconfondibile grido di battaglia, lo riconosciamo ancor prima che la sua esile figura, trascinata da piccoli passi affaticati, compaia in cima alla breve ma ripida salita che conduce alla piazzetta silenziosa, destinazione finale del suo vagabondare quotidiano. Il pendio d’asfalto non si è incattivito sui polmoni al punto tale da spezzargli il fiato, comunque: il vecchio annuncia ai presenti la sua ciondolante e sgangherata follia e un’allegra ubriachezza. Sebbene sprofondi in abiti divenuti col tempo troppo larghi, il sorriso è ampio, spiritato; in fondo alle braccia lunghe e sottili le mani nodose reggono due buste azzurre piene di bottiglie di birra. E’ alto come lo era da ragazzo e magro però, molto più di allora. I capelli sono crespi, lo sono sempre stati; non li ha perduti, ma sono grigi ormai, comunque belli, lunghi e scompigliati come una lenza ingarbugliata. La pelle del viso tende le poche rughe sulle ossa sporgenti del cranio cosicché, ad una prima occhiata, il tempo non sembrerebbe aver inciso sul volto segni irrimediabilmente profondi. La sofferenza non affiora che dall’abisso degli occhi, scivolati nelle orbite come l’acqua di un lago adagiato a fondo valle: solo approfittando dei brevi istanti di bonaccia, è possibile coglierne l’inquietudine, quando la pupilla immobile al centro dell’iride pare illuminare gli anfratti di un pozzo nero sprofondato nel passato. L’allegria innata, il sorriso buono, l’alcool, sono in fondo vento che increspa la superficie di uno sguardo raramente quieto, sono tempesta che travolge immagini e schianta la memoria sugli scogli aguzzi della follia; tutto ciò che riemerge, quando il fortunale si placa, sono ricordi alla deriva, detriti di storie, schegge di esistenza che si arenano sulla spiaggia di questa piccola isola di granito, alberi ed erba spelacchiata. Le parole del vecchio sono una risacca di vita smembrata dalle folate improvvise della pazzia, frammenti dispersi nelle nebbie della mente che il sole lucido della coscienza superstite di tanto in tanto dissolve; le storie che racconta sono brandelli sepolti dalla sabbia dell’oblio, che la marea del caso talvolta riporta alla luce dalle buche profonde del tempo andato. Quanto tempo, andato…
Molto prima di diventare un vecchio, prima di scavalcare gli anni e saltare i continenti, un bambino corre lungo i vicoli di cartone e lamiera del suo quartiere. E’ un altro luogo e un altro tempo e non pensa nemmeno che possano esistere giorni e paesi diversi da questi. Il bambino è nuvola di polvere bianca sulla pelle scura, lacrime di sudore sulla schiena, fiori di sangue fresco che sbocciano sulle ginocchia scorticate e croste di sangue secco sui gomiti spuntati. Il bambino è una cicatrice al giorno. Ferite aperte al mattino e chiuse la sera, come ogni giornata che le finestre sigillate dalla plastica riciclata ritagliano su questa vita di scarto.
Le baracche spuntano dappertutto, nascono e crescono a casaccio come i ragazzini che sciamano nel labirinto di stradine strette tra le casupole rattoppate. – Questi mocciosi sono come le catapecchie che vedi qui intorno: alcuni stanno in piedi, altri no-. Così parla l’uomo che tiene a bada quel nugolo di moscerini perso dietro un pallone di stracci cuciti alla bell’e meglio. Così racconta l’allenatore di quel manipolo di monelli ossuti e seminudi al forestiero venuto dalla città a godersi la partitella nella favela di Santa Rosa.
- Ti abbiamo notato, prima, durante la partita: un forestiero è più evidente di una suora in un bordello; ci chiedevamo solo se fossi uno sbirro, un justiceiro, che poi non fa molta differenza, o un altro di quei pervertiti che offrono 10 reais per una ciucciatina di uccello.
E invece mi vieni a raccontare che vuoi portare il ragazzino a Santos, per giocare nella squadra più forte di questo fottuto paese? Vitto, alloggio e scarpe gratis. Che ti sembra bravo, dici. Ci puoi giurare che è bravo, un fenomeno, esattamente come Buscapè. Anzi, pure meglio: quando giocavano insieme non c’era niente da fare, non c’era neppure bisogno che si guardassero, si fiutavano l’un l’altro come fossero gemelli. Non li batteva nessuno, i bambini prodigio. Poi però Buscapè è scomparso. Tre anni fa è volato via come la polvere di questo immondezzaio: - tra due ore sono qua -, ci disse. L’abbiamo aspettato, certo, glielo avevamo giurato; però tre giorni dopo siamo ritornati al campo, con il pallone tra i piedi.
C’è voluto più di un anno per convincere il ragazzino a ricominciare a giocare. Quattrocentoquaranta giorni che lui ha trascorso seduto dove ora siamo seduti noi due, voltato verso la città, ad aspettare il suo compagno preferito: gliel’ abbiamo promesso, ripeteva.
Se adesso venisse con te, a noi cosa rimarrebbe? Non vinceremmo più neanche una partita, ecco cosa succederebbe; questa squadra sgangherata si sbriciolerebbe come la terra di questo campaccio e io me ne tornerei ad allenare le galline a fare le uova. Un accordo, però, lo possiamo trovare; facciamo così: tu porti scarpette, palloni, tute e magliettine per tutti, e il ragazzino, da domani, può venire ad allenarsi con voi, se vuole -.
Il bambino corre lungo i vicoli di cartone e lamiera del suo quartiere. Il bambino è nuvola di polvere bianca sulla pelle scura, lacrime di sudore sulla schiena, fiori di sangue fresco che sbocciano sulle ginocchia scorticate e croste di sangue secco sui gomiti spuntati. E’ un altro luogo e un altro tempo e non pensa nemmeno che possano esistere giorni e continenti diversi da questi. L’allenatore lo richiama con un fischio, gli fa cenno di avvicinarsi, e lui obbedisce. - Questo signore è qui per te -, gli dice. - Ricordati di essere rispettoso ed educato, perché solo così si diventa uomini. E solo l’uomo onesto e leale diventa un campione-. Il bambino fissa negli occhi l’uomo elegante che ha visto parlare con l’allenatore, durante tutta la partita. Poggia mani sui fianchi e blocca il pallone sotto la pianta del piede. Si avvicina, gli dice il suo nome. E gli sorride.
C’è una panchina su cui ogni giorno il vecchio riposa, raccontando quello che ricorda o crede di ricordare, mescolando realtà, visioni, rimpianti e sogni. Ci siamo anche noi, seduti in questa piazza: vagabondi di ogni età, superstiti quanto lui a onde forse troppo alte, a vele troppo fragili per venti così forti. Aggrappati a questo atollo di granito, a questa spiaggia di sampietrini su cui il nostro passaggio non lascia impronte, abbandonati su queste scialuppe di ferro verniciato, stiamo, come le palme alte scompigliate dal vento. Ridiamo, piangiamo, parliamo, dormiamo, ci ubriachiamo, viviamo così come viene.
Tutto intorno è la città, mare troppo pericoloso anche per i naufraghi più coraggiosi. Infido e traditore come una donnaccia da osteria. Tutto intorno è maremoto d’auto, scrosci di rabbia, schiuma di indifferenza. Meglio stare qui, al riparo di questa piazza sottovento abbracciata dalle facciate colorate di queste case antiche, fermi immobili ad ascoltare le storie del vecchio che talvolta si attarda a farci compagnia, seduti e zitti a testa china, persi ognuno dietro il proprio rimpianto come marinai in pensione alla bettola del porto.
Il vecchio racconta i suoi spezzoni di vita a brandelli e di tanto in tanto, quando meno te lo aspetti, smarrita la bussola del tempo e dello spazio, in piedi e rivolto ad una platea invisibile, da’ voce ai suoi fantasmi: – grazie, grazie a tutti – grida alle stradine laterali e alle scalette che si arrampicano verso la Città Alta e il Castello; urla come se i balconcini qui intorno fossero gradinate gremite di pubblico festante: – Siamo grandi amici. Ah sì, grandi amici. Voi mi avete ammirato, voi mi avete adorato e io vi ringrazio, sono orgoglioso di voi. Orgoglioso, sissignore, orgoglioso e fiero. Eravamo i più forti, noi. I più forti del mondo. Nessuno, ci poteva battere. Proprio nessuno -.
Ha conservato l’eleganza innata dei movimenti, una classe che la consunzione non è riuscita del tutto a cancellare. Il ritmo e la musica che lo facevano danzare sul vecchio prato alla periferia della città scorrono ancora sotto la pelle e nelle vene sporgenti. Le movenze fluenti nascoste appena dai piccoli passi delle gambe affaticate sono le stesse che ubriacavano gli avversari, le stesse che incantavano e strappavano grida di entusiasmo, imprecazioni e bestemmie, fino a qualche tempo fa. Sembra quasi di sentirli, i racconti dei fortunati che l’hanno visto trascinarsi dietro l’intera squadra avversaria, stordita da quella danza impossibile, e servire infine alla spietata freddezza dell’attaccante il più facile dei palloni. Sembra quasi di vederlo.
Tutti conosciamo il suo nome e cosa lo abbia portato fin qui; cosa invece lo abbia obbligato a restare e a non fuggire, quando tutto è finito, possiamo solo immaginarlo, anche se forse è un mistero che non riusciremo mai a comprendere del tutto, per il semplice fatto che la sua catena e la nostra sono saldate allo stesso lucchetto che vincola noi a questa terra, a questa città, a questa piazza, a questa panchina. Chi nasce in gabbia non si accorge delle sbarre: il macaco non vede la sua coda…
Lo conosciamo tutti, il vecchio, anche se molti di noi sono troppo giovani per averlo visto volare sul vecchio prato verde; oggi possiamo solo essere spettatori di questo strascicarsi sui sampietrini di porfido, piccoli e squadrati, che confinano l’erba ai margini, sulle aiuole, poca e spelacchiata per giunta, come il manto di un cane ammalato.
Ma chi non lo riconoscerebbe? Succedono così poche cose importanti, sotto la serenità di questo cielo immobile, che il ricordo abbagliante di un fulmine te lo porti appresso fino al buio della tomba, e lo racconti ai tuoi figli, e ai tuoi nipoti, come mio nonno ha fatto con me. E quella di allora sì che fu una bella tempesta: tuoni tanto forti da scuotere la dannata isola e tutto il maledetto continente. Non si parlava d’altro, quarant’anni fa…
Il ragazzo vola su ali di fischi e grida e fiati sospesi, scivola veloce sopra il grande campo d’erba della piccola città. Non si è mai visto niente del genere: perché il ragazzo è nero e quaggiù, di mori, non ne sbarcavano dai tempi delle invasioni saracene; e poi perché nessun avversario riesce a stargli dietro. Semplicemente, non ce la fanno.
Sono tutti convinti che il fuoriclasse di questa squadra sia il numero undici, l’attaccante: il freddo, micidiale, spietato giustiziere mancino. La stampa nazionale si spertica in lodi osannanti, studia metafore mitologiche, gareggia nel fabbricare neologismi improbabili ed evocativi.
Tutte cazzate.
Lasciatelo dire a me, che in ottant’anni di vita ho visto decine di giocatori vestire questa maglia. Come lui, nessuno. Io c’ero già, agli inizi del secolo, quando nella Piazza d’Armi si tiravano i primi calci al pallone, sfidando i marinai inglesi che sbarcavano alla Darsena da piroscafi con nomi impossibili. Io c’ero, quando ci fu da riempire di sabbia le voragini aperte dalle bombe degli anglo-americani nel campaccio di via Pola. E ci sono anche oggi, anno 1970, con il mondo sottosopra e il vento che pare cominci a soffiare dalla parte giusta.
Se non ci fosse lui, i nostri centravanti vagherebbero in mezzo al campo come bambini smarriti: sembra che li tenga per mano, mentre corre. Se non ci fosse lui, non conosceremmo l’elegante austera potenza di un passo di danza, la semplicità della forza atletica, la facilità di un passaggio, la taciturna modestia di una classe innata.
Quest’anno non ci batte nessuno. Proprio nessuno; poco, ma sicuro.
Così pensiamo mentre seguiamo con occhi sgranati le sgroppate infinite lungo le fasce laterali. Così pensiamo mentre sugli spalti e intorno al campo è un incalzarsi di panico e speranze, è tutto un rincorrersi di sguardi, di migliaia di sguardi allarmati e fiduciosi e di fiati sospesi e grida di incitamento e di paura, un inciampare di occhi sui piedi che danzano eleganti, prima che distenda le lunghe gambe in falcate sempre più ampie e leggere lanciate al di là del suo stesso sguardo, quasi voglia arrivare con due balzi al di là del mare.
Il ragazzo ha un solo pensiero in testa: correre. Sembra non volersi fermare mai, come fosse una preghiera sgrana la corsa in un rosario di passi: una supplica per ogni grano, per ogni grano l’invocazione di un paradiso perduto.
E tutte volte, un attimo prima che il campo finisca in una ghigliottina bianca di gesso, nell’istante in cui la linea di fondo spegne ogni speranza che si possa scavalcare il tempo, e aggirare lo spazio, solleva lo sguardo e si volta a sinistra. Io lo so, perché: spera fino all’ultimo che il passato abbia saputo correre veloce quanto lui; io so che volge lo sguardo alla sua sinistra, per mezzo secondo, senza scomporre mai la corsa elegantissima, solo per vedere se per caso, o per qualche strana magia, ci siano i suoi fratelli, ad aspettarlo in mezzo al campo: quella banda scalmanata di ragazzini cenciosi e coperti della polvere bianca del campaccio della favela di Santa Maria; perché sogna ogni volta di non aver corso invano, in un’azione perfetta, ma solitaria.
Questo mi racconta ogni domenica sera, seduto al tavolo di un ristorante del centro città. Io lavoro qua: caposala Vincenzo Innocente, per servirvi. Cameriere dal martedì al sabato, pescatore dalla domenica al lunedì. Comunista sempre, tutti i giorni.
Questo ci raccontiamo anche oggi, dopo l’ultima vittoria di una primavera incredibile e bella, dopo questo ennesimo miracolo di fine anni ‘60, nel giorno in cui davvero si realizza l’utopia degli ultimi che arrivano davanti ai primi. - Abbiamo battuto tutti, ragazzo. I padroni arroganti, gli industriali che sfruttano i nostri emigrati, i continentali ricchi che mentre ci sfottono rubano la terra più bella di quest’isola, chi mangia la nostra pelle e sulla nostra pelle, chi non ci considera nemmeno sardi, nemmeno uomini, nemmeno e basta. Oggi siamo apparsi a tutti quelli per cui siamo sempre stati invisibili: li stiamo facendo cagare addosso. E’ la primavera del 1970, ragazzo. La primavera del nuovo mondo. Del mondo che cambia e ribolle di rabbia. Quale anno migliore avremmo potuto scegliere, per questa rivoluzione? -.
Lui non risponde. Sa che gli dobbiamo una grossa parte di questa vittoria. Ma tace. Lo sguardo è serio, come sempre. Lo stesso delle fotografie scattate in mezzo al campo, insieme agli altri, prima della partita. Io lo conosco, quello che cerca il suo sguardo: è la polvere che si alza nel cielo, durante una partita a piedi nudi, di troppi anni fa.
Rimangono solo tovaglie macchiate di vino, e cenere e briciole sparse per terra, bicchieri rovesciati. Rimasugli: come sempre, avanziamo noi due, alla fine della nottata, dopo che tutti i compagni sono andati via, a casa o a continuare la festa altrove, insieme ai camerieri, ai cuochi, alle donne delle pulizie, a tutta la città e a tutta l’isola, tutti via, in strada, che oggi è una di quelle giornate che non si ripeteranno mai più. Come una rivoluzione.
Restano sempre molte parole non dette, forse, eppure dopo che il fiato brucia piano come il tabacco buono, noi tacciamo in un silenzio freddo di cenere; restiamo seduti ugualmente, perché amiamo gustare il fumo e l’aroma di ciò che resta in sospeso volteggiare silenzioso nell’aria. Così parliamo fino a che non abbiamo più niente da dire, finché non decidiamo di tappare tutti i discorsi rimasti a metà dentro le bottiglie vuote, per gustarceli nuovamente in seguito, in un’altra occasione, se e quando ce ne tornerà la voglia.
Prima di uscire affido la macchina fotografica al lavapiatti, prima che scappi come tutti gli altri: - scatta, gli dico, che questa è da conservare per i nipoti!-.
La città è una gigantesca orgia di gioia, un formicaio impazzito.
Il vicolo su cui ci affacciamo, uscendo dal ristorante, è una lunga lama conficcata nel cuore del quartiere del porto; per fortuna è deserto.
Incrociamo solamente un padre che tiene per mano un bambino molto piccolo. Il padre riconosce subito il ragazzo, mentre il bambino si ferma a fissare quel giovane alto e scuro immobile al centro della via. Tutto si ferma allora, nel vicolo risparmiato dal caos che invade ogni angolo di strada, congelato insieme agli occhi spalancati del bambino, al sorriso incredulo del padre, al fiato sospeso del ragazzo accanto a me, che si anima all’improvviso e comincia a mormorare dei nomi sconosciuti.
- Buscapè !-, lo sento esclamare; non capisco subito, lo vedo inginocchiarsi e tendere una mano verso il bambino: - ciao -, gli dice, lo sai chi sono, mi riconosci ? -.
Il bambino, disorientato dal fatto di sentirsi chiamare con un nome che evidentemente non è il suo, è paralizzato dalla paura e dall’emozione. Si volta verso il padre, sperando in un suggerimento, o solamente per assicurarsi della sua presenza, e scuote lentamente la testolina di capelli crespi, mentre gli occhi nerissimi si spalancano in una minaccia di pianto: - come ti chiami?- riesce a dire, soltanto.
Il ragazzo si avvicina, lo prende in braccio, gli dice il suo nome. E gli sorride.
Quarant’ anni fa i passi del vecchio non erano incerti come lo sono ora: sembrava che con due salti potesse scavalcare il mare, così si racconta. Oggi non ha più bisogno di corse tanto lunghe e veloci, non sogna più di scavalcare l’oceano con due balzi e tornare a casa, ora la meta è distante un passo: posa per terra la busta azzurrina colma di bottiglie di birra, e farfugliando una litania complicata di nomi, si lascia cadere a peso morto sulla panchina.
A volte la filastrocca si ingarbuglia come una lenza, e attorno al mulinello del tempo si annodano passato e presente, infanzia, gioventù e vecchiaia, realtà e allucinazione, sogno e incubo. Allora bisogna sforzarsi un po’ per dipanare la matassa intricata della memoria, per tirare i fili giusti del ritornello, quelli che districano il groviglio di parole in una cantilena appena comprensibile: - Bertosi Zignè Joao, Cera Niccolai Gabeleira, Domingo Claudio Paraiba, Riccio e Buscapè. Eravamo bravi, proprio bravi, i più bravi del mondo. I bambini prodigio. Abbiamo battuto tutti, nessuno ci avrebbe potuto sconfiggere, proprio nessuno -.
Il vecchio nuovamente si leva in piedi e prende a salutare con foga crescente gradinate immaginarie, vuote e silenziose, a ringraziare uno stadio deserto: - siamo grandi amici, io sono orgoglioso di voi, mi avete ammirato, mi avete adorato e io non mi dimentico, io vi voglio bene, io ho voluto bene a questa nostra terra, la nostra Sardegna. Orgoglioso, io sono orgoglioso e fiero di voi, come voi siete stati orgogliosi di me. Grazie amici, grazie a tutti -.
A parte noi due però, ormai non resta nessuno in questo minuscolo giardino al centro della città, nascosto dietro la via commerciale, sopravissuto alle case basse di inizio secolo ed ai palazzotti signorili dalle facciate color pastello. Sembra disegnata dai bambini, questa piazzetta che dello stadio non ricorda neanche lontanamente le dimensioni ma solo, vagamente, la forma: ovale, tonda sul fondo e stretta in cima, a punta come una lacrima d’acqua, che gocciola dal tubo stretto della viuzza San Domenico. C’è silenzio, quasi sempre, e due palme alte che fanno da guardia agli olmi, a otto panchine e ad un piccolo crocefisso. Ci sono dei lampioni di ferro battuto tutto intorno, piantati su pali sottili e grigi, anch’essi in ferro, oppure sostenuti da piccole ringhiere scure, che sporgono dalle facciate delle case come luci da un albero di Natale. La mattina e il pomeriggio, quando il sole si affaccia sopra questo secchiello di colori, la piazza si illumina come un mappamondo per bambini: gli stati, tutti di una tinta diversa, sono queste case, gli alberi e la terra delle aiole sono le pianure e i monti, il cielo è il mare. All’imbrunire invece, i lampioni diffondono tutto intorno una luce arancione, una nebbiolina che cambia nuovamente lo sfondo del paesaggio. Le chiome degli alberi diventano blu, e i tronchi grigi, i sampietrini rosa pallido, le case di tutti i colori. Sembra un’alba al contrario, ritardataria, notturna, che arriva alla fine del giorno.
Si sta bene, qui.
Da soli.
Oppure ha ragione lui, forse c’è un mare di gente, e sono io a non vedere, accecato dalla quotidianità, la folla assiepata sulle gradinate del tempo, rinchiusa dietro i cancelli della memoria ignorata e cancellata. Mi viene da pensare a quanto sarebbe migliore il mondo, se come lui avessimo sempre il passato davanti agli occhi. - Il macaco non vede la sua coda. Nel canale Mammaranca-. Chissà quante persone ci sono, imprigionate nella testa del vecchio: - Belè, Gabeleira, Scopinho, Domingo, Thomàs, Ricciotti, Thiago, Angelica, Paraiba, Claudio, Buscapè -. Tutte le volte quasi come una preghiera. Una parola magica. Un richiamo. Un’invocazione: - Buscapè.
Buscapè.
Buscapè -.
Ad un certo punto, però, sembra accorgersi di tutta questa assenza palese e muta; tace all’improvviso, mi guarda serio, poi d’un tratto sorride con tutti i denti che gli restano. E con due passi scavalca con un balzo il mare di pietra che separa le nostre panchine.
- Ciao Buscapè, bambino prodigio-, mi dice, - il macaco non vede la sua coda -.
Ma io sono solo un ragazzo, penso, come lo sei stato tu quaranta anni fa, quando eri il più forte di tutti. Chissà se lo sono mai stato, un bambino; prodigio poi, sicuramente no, mai.
E di macachi tra l’altro, a parte noi due, vecchio, qui non ce n’è neanche l’ombra.
- Ma tu ti ricordi di me? Lo sai chi sono?
Questa volta la voce segue i pensieri, e rompe il silenzio prima che la possa fermare: - certo che lo so, chi sei -.
-Eh vai!-; il vecchio continua a parlare come se non avesse sentito, riempie di birra altri due bicchieri, uno per ciascuno. Sembra seguire con lo sguardo la rotta delle parole che rotolando via dalla sua bocca tracciano traiettorie impossibili, rimbalzano sui muri delle case e sugli occhi dei pochi passanti, riecheggiano in grida di rondini e sguardi distratti, perdendosi infine lungo i torrenti di vicoli che si riversano nel grande fiume in piena della passeggiata cittadina.
- Ma che fine hai fatto Buscapè, lo sai per quanto tempo ti ho aspettato?Più di un anno, amico mio. Adesso non c’è più la terra battuta, vedi, hanno messo questi sassi quadrati, così non ci sporchiamo di polvere come quando eravamo bambini, e se cadiamo, le ginocchia non ce le sbucciamo più.
Ora non c’è più nessuno che ci può portare via, stai tranquillo, eh. Più lontano di così, dov’è che vogliamo andare? Siamo ancora in tempo, per la partita, eh Buscapè? Facciamo ancora in tempo, a ricominciare a giocare?-.
Quando mi fissa dritto negli occhi sembra quasi accorgersi del mio smarrimento, ma è una consapevolezza che dura il tempo di un bicchiere svuotato d’un fiato: - eh vai -, dice – allora torniamocene al tuo ristorante, a quest’ora starà chiudendo, non lo vedi che è notte? Mi ricordo del ristorante. Andavamo sempre lì, a festeggiare. La rivoluzione! Te la ricordi tu la rivoluzione?: e ricomincia con tutti quei nomi in fila, uno dietro l’altro, come una preghiera. La filastrocca ingarbugliata del tempo. - I camerieri saranno già andati via, i cuochi staranno dando l’ultima lucidata ai fornelli. Ci sediamo al nostro tavolo, e finiamo la serata a guardare come il fumo si annuvola contro il soffitto -.
A me sembra di averla già sentita da qualche parte, la storia del ristorante e della rivoluzione, ma alla fine non ci bado più di tanto e uno stormo di piccioni mi distrae definitivamente, atterrando scomposto ai nostri piedi per razzolare le briciole del pane che abbiamo rosicchiato aspettando la sera.
- Guarda! -, mi fa, - i bambini prodigio; rispettosi ed educati, perché solo così si diventa uomini. E solo l’uomo onesto e leale diventa un campione-.
I piccioni quasi sembrano capire e con rispetto, una volta terminato quel discorso folle, spiccano il volo, dissolvendo in uno sbattere d’ali anche quell’ultimo fantasma.
Il vecchio, rassegnato, si lascia andare contro la spalliera di ferro della panchina.
E’ stanco, serra le labbra sui denti e calando un sipario sullo spettacolo travolgente del sorriso allegro, lascia che gli occhi si perdano a cercare qualcosa che forse non è qua, come ora pare chiaro perfino a lui.
Gli tendo la mano: mi chiamo Alessio, gli dico, e da bambino i compagni di squadra mi chiamavano “puncia”, in sardo, perché ero magrissimo, sottile come un chiodo. Ma tu puoi chiamarmi Buscapè, se vuoi, vecchio -.
Contraccambia uno sguardo che pare lucido, e un sorriso appena accennato, impercettibile.
Mi tende la mano nodosa come un ramo spoglio.
- Lo sapevo, bambino prodigio, siamo amici, noi, grandi amici. Io sono brasileiro, amico, brasileiro di Sardegna -.
Il vecchio è crocefisso ad un rosario di undici nomi sgranati dal tempo, nomi che ho imparato da bambino e che ricordo ancora tutti, uno dietro l’altro, filastrocca memorizzata prima ogni altra: Albertosi Martiradonna Zignoli, Cera Niccolai Tomasini, Domenghini Nenè Gori, Greatti, Riva.
- Sono nato a Santos, Sao Paulo, Brasil -.
Mi dice il suo nome, e mi sorride.
- Mi chiamo Claudio Olintho de Carvalho, amico.
Nenè -.
Seduto sulla stessa panchina di allora, lo rivedo nelle fotografie.
Ora che sono vecchio come lo era lui il giorno del nostro primo incontro:-mi chiamo Alessio, gli dico, e da bambino i compagni di squadra mi chiamavano “puncia”, in sardo, perché ero magrissimo, sottile come un chiodo. Ma tu puoi chiamarmi Buscapè, se vuoi, vecchio -.
Ora che ho più tempo per ricordare, anche se sarebbe meglio dimenticare, forse.
Alla fine poi la rivoluzione c’è stata davvero, ma l’hanno fatta gli altri. Ci hanno schiacciato come moscerini.
Della città che è stata poche cose sono rimaste in piedi, dopo una battaglia durata una settimana. Tra le poche i ruderi di una piazza tonda sul fondo e stretta in cima come una goccia d’acqua, e questa panchina contorta.
Anch’io, come faceva lui, mi porto sempre appresso due buste azzurrine, di quelle che si usavano per trasportare la spesa a casa: solo che le mie sono piene di fotografie. Le ho raccolte un po’ dappertutto, tra quello che è restato. Sono come le briciole di pane che i vecchi di una volta davano in pasto ai piccioni. Queste briciole di passato nutrono me. Cerco di far trascorrere il tempo, riportandolo indietro. Riavvolgendo il nastro, spero che il film che mi distrae dalla realtà possa durare il più a lungo possibile.
Ce n’è una, in particolare, che ho trovato per caso, qualche anno fa, nella vecchia casa della mia famiglia. E’ un immagine di quasi ottant’anni fa. Il mio piccolo tesoro.
Me la rigiro di nascosto tra le mani, questa antica stampa in bianco e nero, stando bene attento a non rovinarla, a non sgualcirla.
Ritrae due uomini: alti, magri distinti, austeri. Si somigliano molto, potrebbero sembrare fratelli se non fosse che uno è molto anziano e di pelle bianca, l’altro è più giovane e scuro di carnagione.
Le foto come questa sono andate quasi tutte distrutte. Sarebbe impossibile esporne una, e se me la trovassero addosso passerei dei guai seri. La “mescolanza”, come chiamano ora i legami, di qualsiasi tipo, tra un bianco e un nero, non è tollerata dal Nuovo Governo.
I due uomini posano per un fotografo improvvisato nel disordine di una sala elegante: tovaglie sporche, bicchieri rovesciati, rimasugli di cena e di festa. Il più anziano indossa una giacca chiara su pantaloni neri e un farfallino scuro serra il colletto di una camicia immacolata. Tiene le mani incrociate dietro la schiena. E’ impeccabile, nel mezzo del caos che lo circonda. I pochi capelli ai lati della testa calva sono bianchi e radi come i baffetti sottili e curati che incorniciano un sorriso misurato, composto, soddisfatto. Sornione. Il ragazzo poggia amichevolmente il braccio sulla spalla dell’uomo anziano. Il ragazzo, è lui. Che è stato bambino, ragazzo, vecchio, come tanti. Campione, come pochi. Che è stato, e poi basta. L’uomo anziano era invece il caposala di uno storico ristorante del centro città: - Vincenzo Innocente, per servirvi -. Nonno.
Sul retro c’è una data: 12 aprile 1970. Poi, appena più sotto, una scritta: La Rivoluzione.
Come ho fatto, quel giorno lontano quarant’anni, a non pensarci?: - Allora torniamocene al tuo ristorante, a quest’ora starà chiudendo, non lo vedi che è notte? Mi ricordo del ristorante. Andavamo sempre lì, a festeggiare. La rivoluzione! Te la ricordi tu la rivoluzione?.
Seduto sulla stessa panchina di allora, lo rivedo nelle fotografie.
Ora che sono vecchio come lo era lui il giorno del nostro incontro.
Ora che ho più tempo per ricordare, anche se sarebbe meglio dimenticare, forse.
Prima della Sconfitta si trovavano ancora dappertutto, quelle fotografie scattate nel 1970, quasi ottanta anni fa.
Io le conosco, quelle immagini. Le ho imparate a memoria. Conosco ogni piega delle divise bianchissime, perfette, senza una sgualcitura, i volti tesi, eppure nel contempo sorridenti e scanzonati, le braccia conserte, gli occhi vivi. Questo è quello che tutti possono osservare. Ma c’è un particolare che conosco solo io. C’è un uomo, in mezzo agli altri, che guarda lontano, mentre tutti i suoi compagni sembrano sprofondati nel presente. Lui no, viene da un altro tempo.
In tutte, immancabilmente, è il primo da sinistra, in piedi. Volto asciutto e braccia incrociate, strette sul petto. Elegante, perfino in quella posa statica. Magrissimo, scuro, austero. Tra tutti gli altri uomini in maglia bianca, è il più serio. Ma è lo sguardo, in realtà, che colpisce: ad una prima occhiata potrebbe sembrare triste, ma chiunque lo osservi con attenzione, invece, lo scoprirà meditabondo, concentrato su qualcosa che aleggia alle spalle dei fotografi schierati di fronte. Perso oltre il prato verde, il pubblico trepidante, le gradinate di cemento e legno e tubi innocenti. Perso in un altro luogo. In un altro tempo.
Quando tutto era ancora possibile.
E’ stato il più grande, così mi raccontava mio nonno. Poi è stato un mio grande amico, e questo conta anche di più. L’unica cosa che conta, forse.
- Mi chiamo Claudio Olintho de Carvalho, amico.
Nenè-.