giovedì 6 dicembre 2018

La fine del giorno

Chiude le porte della filiale. Imposta gli allarmi, si incanta sulla luce rossa e intermittente che segnala il blocco degli accessi. La scritta “on” lampeggia nella penombra, la ipnotizza. Le vetrate anti-sfondamento la isolano dal frastuono dell’ora di punta e nel silenzio degli uffici deserti da ore rimbombano mozziconi di frasi pronunciate fino a poco prima: inadeguata, polso della situazione, ferie inutili, sola come un cane, certo se ti avvicini un po’ anzichè star lì, incapace. Mentre il Capomercato le vomitava addosso frasi rabbiose, si era concentrata senza replicare sulla vista che poteva godere da dietro la scrivania: il sole splendeva ancora nella luce finale della serata estiva e in lontananza si stagliavano le colline azzurre dei Sette Fratelli; dietro il profilo delle creste montuose, nette contro il cielo limpido, quasi sentiva soffiare il respiro rassicurante del mare. Quando quel pitbull in doppiopetto finalmente se n’era andato lei era rimasta immobile per ore, inchiodata alla croce di quella poltrona ergonomica da parole acuminate come chiodi.

Lo squillo improvviso di un telefono - ma a chi può venire in mente di chiamare una banca a quest’ora? – la ridestano da quel torpore e la riportano al presente, così esce per strada. Si avvia con passi lenti lungo il marciapiede, le mani gelide sprofondate nelle tasche del cappotto. Nessuna destinazione, nessuna ragione in quell’andare diversa dal semplice camminare. Ha fame ma la prospettiva di una cena muta è una sentenza inappellabile al digiuno. Il supermercato ha chiuso da un pezzo. Non cenerà. Gli occhi fissi al suolo restringono il campo visivo sulla punta delle scarpe, costringono le ombre dei pochi passanti ai margini della visuale, ma la coda dell’occhio registra comunque i tavoli deserti dei locali, il candore dei piatti vuoti, le pieghe sulle tovaglie consunte, le camicie linde dei camerieri in attesa vana di clienti che nell’ora tarda non arriveranno mai e fotografa sui loro volti la delusione di un appuntamento tradito. Osserva il disarmo di quella periferia impiegatizia, un avamposto di città sorvegliato dai bidoni della raccolta differenziata schierati di sentinella di fronte agli uffici abbandonati. Le vie deserte paiono i binari di una stazione dismessa e si sorprende a immaginare un uomo in attesa di un treno che non arriverà mai: se lo figura invecchiare all’ombra di una pensilina, il grigiore della polvere adagiata sui tabelloni spenti, la paralisi degli orologi inerti, il silenzio di nessun annuncio, nell’attesa vana di una assenza irrimediabile.

Lei il silenzio non lo sopporta, allora canticchia una canzone che tenga compagnia al passo, il suono dei tacchi sul selciato a tenere il tempo. Sceglie Suzanne, senza sapere perchè. - Vorresti essere lei? - Chiede a sè stessa. - ? Ti sarebbe piaciuto vivere al suo posto? - La sua voce è un sussurro che il vento freddo strappa a brandelli e porta via senza l’eco di nessuna risposta, una lettera mai consegnata a chi quella canzone le aveva insegnato...e Suzanne ti dà la mano, ti accompagna lungo il fiume, porta addosso stracci e piume, presi in qualche dormitorio, il sole scende come miele, su di lei donna del porto...
C’è un cinese aperto, entra, sceglie un albero di natale preconfezionato, alto 30 cm, ha già le luci, minuscole come gli addobbi, un jingle bell che suona scordato, le batterie che dureranno qualche ora, al massimo. Le strappa un sorriso per quanto è triste una musica che suona metallica sotto la luce fredda dei neon, allora lo compra.

Nota una scimmietta di pelouche, nella pancia nasconde una borsa d'acqua calda ad alimentazione elettrica, in pochi istanti diventa bollente. Probabilmente esploderà, pensa, ma anche una volta mi parlasti del freddo che senti a casa, seduto sul divano, la sera.
- E’ per te, ti piace? chiede.
Un orientale stretto in una giacca a quadri troppo larga solleva la testa dallo schermo di un telefonino, capisce che la domanda non è rivolta a lui come a nessun altro, la riabbassa sul registratore di cassa.
Paga ed è già in strada, sul pullman che la riporta a casa. Le luci della città scorrono sui vetri sporchi come la pellicola bruciata di un vecchio film muto. La fronte contro il vetro ghiacciato del finestrino, sulle ginocchia una sporta di sottilissima plastica azzurra, stretta contro il petto. Un senzatetto carico di buste borbotta, un ragazzino ascolta musica dalle cuffie con lo sguardo perso nel vuoto, una vecchia tenta di resistere al sonno, la testa ciondoloni.

Di fronte al suo appartamento la accoglie l’insegna gialla della pizzeria, resiste alla tentazione di una Quattro stagioni, apre il cancelletto, oltrepassa il piccolo giardino, infila la chiave nella toppa, apre. Senza accendere la luce si chiude la porta alle spalle, il rumore dell’uscio nel buio è il tonfo di un sasso sull’acqua di uno stagno, ne increspa appena, per un istante, la superficie. Sussurra – ciao, sono tornata - al silenzio liquido che la avvolge; parla per non affondare, aggrappata alla zattera di un suono qualsiasi.

In camera da letto apre un’anta dell’armadio, poggia la scimmietta in cima al mucchio di tutti gli altri regali mai consegnati, sfila le scarpe, si stende sul letto, così com’è, vestita.

- Buona notte, si dice.

Punta la radio sveglia alle 6:00 del mattino. I cristalli liquidi rischiarano l’oscurità della stanza di una luce tenue e soffusa, rossastra. Le 21.27 fluttuano nel buio come le luci di una astronave.  

Per un po’ le guarda galleggiare, poi chiude gli occhi.

 






Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...