martedì 19 marzo 2019

Toni Merdona


Quando esce è primavera.

In realtà è un mattino di febbraio, ma così tiepido e terso che sembra maggio.

Una brezza leggera sale dai vecchi bastioni lungo il viale che costeggia la prigione, muove appena i rami dei pini piantati lungo la passeggiata e porta con sè l’odore del mare accucciato più in basso, stretto nell’abbraccio del golfo.

Toni se ne sta immobile, perchè un conto era annusarla dalla finestra della cella e un altro ritrovarsela addosso, questa realtà improvvisa, così diversa da quella che si era costretto ad immaginare: aveva messo in conto il freddo, l’autunno, l’emozione di un abbraccio e del non sapere che dire a chi avrebbe rivisto dopo dieci anni. Invece trova il sole che accende di giallo i fiori delle acetoselle sbocciate prima del tempo e nessuno in strada ad aspettarlo; come poteva essere stato così stupido da illudersi del contrario? L’evidenza del silenzio, del brusio di fondo del traffico accompagnato da nessuna voce, lo inchiodano al marciapiede fino a che il tonfo della porta carraia non lo spinge in avanti,  quasi fosse una manata sulla schiena, di quelle che lo obbligavano al tuffo nell’acqua blu della cala del faro, a bomba, quand’era ragazzino. E infatti si volta e guarda indietro, e quasi si aspetta di vedere sbucare le facce sghignazzanti di Marcellino, Baballotti e Ginetto, che gli fanno il verso dallo scoglio dieci metri più in alto mentre lui riprende fiato dopo il salto e l'apnea. Invece non c’è nessuno, a parte la guardia di ronda sul muro perimetrale del carcere che con la mano gli fa cenno: ahiò, vai! Bairindi! E lui si rassegna ad andare.

Abita un vicolo della Marina, subito dietro il porto, un budello cieco e senza uscita dove la luce non entra nemmeno per sbaglio e dove lo attende lo stesso odore di muffa di sempre, ispessito dall’assenza, dal buio e dal mancato ricambio d’aria. Si butta sul letto così com’è, vestito, ancora puzzolente di cella: bentornato, Toni Merdona, si dice. E ride.

Nel quartiere l’hanno sempre chiamato così per via della mania di indossare soltanto camicie nere sbottonate sul petto e il colletto lungo come quelle del ballerino del film solo che al contrario di Toni Manero, lui, Toni Merdona, era basso, molto basso, e la carnagione scura e i capelli nerissimi, impomatati e portati alla mascagna, gli avevano sempre dato un’aria da sorcio. Ma c’era anche un altro motivo all'origine del suo soprannome. Non era mai stato alto, questo bisognava ammetterlo, ma leggero e agile sì, e forte; arrembare i palazzotti liberty e razziare gli appartamenti dei signorotti per lui era sempre stato un gioco da ragazzi: puntava i piedi sul muro, artigliava le grondaie con le mani e in pochi secondi spariva oltre i balconcini di ferro battuto. Toni Merdona topo lo era stato davvero, d’appartamento però. Avrebbero potuto affibbiargli un nomignolo da supereroe, ma si sa com'è nel quartiere, al timore ossequioso del mito si preferiva di gran lunga la risata irriverente dello sberleffo. 

Dorme fino al mattino un sonno senza sogni. Quando si sveglia scopre di non avere nessuna voglia di uscire per strada, la luce del giorno lo infastidisce, si costringe a farlo. I giorni successivi prende a ciondolare sul lungoporto, traccheggia su una panchina, la faccia al sole e gli occhi chiusi: asciugo le ossa, risponde a chi gli rivolge un cenno; il sabato fa un salto al mercato, alla domenica tenta una passeggiata al vecchio borgo, ma è un'anima in pena, si stufa in fretta, rientra in casa. Dopo qualche tempo prende l'abitudine di andarsene in giro di notte, al primo buio si affaccia all’uscita del vicolo e lancia rapidi sguardi prima a destra, poi a sinistra e quando alza il muso per guardare il cielo, cercando la luna, sembra annusare l’aria per decidere se sia il caso di muoversi o rientrare in tana. Risale rapido le vie più strette, rasente al muro, via Lepanto, che è la sua preferita, poi via Torino, scavalca viale Regina Margherita, taglia piazza Costituzione e si inabissa nei vicoli di Villanova, scomparendo alla vista. Ma dove se ne va Toni, ogni notte, si chiedono i compagni di strada, gli avanzi di galera, gli amici del quartiere, dove va Toni, si domandano al bar quelli che non sono ubriachi, nemmeno si ferma per una meringa da Tramer, era fissato, dove va Toni, se nemmeno ruba più, boh da quando è uscito è cambiato, non parla più, has biu? Lui cammina a testa bassa, veloce, neppure risponde ai pochi che incontrandolo lanciano un saluto che pare un'esortazione o peggio, una domanda -oh Toni!- e poi lo osservano sgusciare via scuotendo il capo, lo seguono con lo sguardo finchè non gira l'angolo, il carcere, pensano, balordo, il carcere. Toni raggiunge la strada dei giardini, perché è veloce Toni, mica ce la fai a stargli dietro, in quella via c’è un palazzotto di due piani, gli ci vogliono meno di dieci secondi per arrampicarsi e raggiungere il secondo, scavalcare il balconcino, forzare la finestra, entrare senza far rumore in quella casa che conosce così bene. Attraversa l’oscurità del piccolo salone, fiancheggia la libreria stracolma di volumi, percorre un piccolo corridoio, accede alla camera da letto. In perfetto silenzio siede sulla poltrona e la guarda dormire. Qualche giorno prima l’ha incontrata per caso, vicino al mercato: lei non se n'è neppure accorta, ma lui sì, ne ha avvertito la presenza ancora prima di vederla avanzare tra i banchi di frutta trascinando il carrellino della spesa, lo sguardo celato dietro larghi occhiali da sole. In tutti quegli anni l'ha attesa ogni giorno, ha sperato che lo andasse a trovare almeno una volta, ma lei era svanita nel nulla senza una parola, un saluto. Le aveva scritto, ma ai suoi perché lei aveva opposto un silenzio assoluto. Si era arreso all'evidenza di quell'assenza irrimediabile soltanto quando si era ritrovato a fissare la desolazione del marciapiede vuoto all'uscita della prigione. Lei non c'era, e per un momento aveva avuto la tentazione di voltarsi e picchiare i pugni sulla porta di ferro, che lo facessero rientrare, che non c'è gabbia peggiore della solitudine. Ma poi si era avviato, perché  alla fine tutti ci costringiamo a percorrere strade che non conosciamo, e ora siede in questa stanza dove un tempo molto prima di adesso ha dormito anche lui, e nella penombra rischiarata appena dalla luce arancione dei lampioni osserva i suoi capelli chiari sparsi sul cuscino, le spalle minute, il polso esilissimo, la curva precisa della schiena, la linea perfetta delle sopracciglia, le palpebre chiuse. Ricorda l’ultima sera, dieci anni prima, quando le aveva detto che occhi come i suoi non ne aveva mai visto, -sembrano un bosco, aveva detto- e lei aveva riso e aveva riso anche lui, perchè era una frase che col resto del discorso non c’entrava nulla, ma gli era venuta così, improvvisa, insopprimibile, come l’energia che ora ogni notte lo costringeva a quella follia. Trattiene il respiro per paura di svegliarla, ma non serve, lei dorme ogni volta un sonno profondo che sembra invincibile. Invece no, una notte lo un tuono la fa sobbalzare e quando accade se lo ritrova davanti, ha un sussulto, non grida, gli occhi aperti nel buio, profondi come la notte che inghiotte ogni cosa. Lui fa un gesto con le mani, i palmi rivolti verso di lei come dire, non avere paura, amore mio, non avere paura, vorrebbe dire, invece dice solo: sempre gli stessi, e lei non capisce a cosa si riferisce, se parli di loro due, o di chissà che altro. - Cosa Toni, cosa è sempre lo stesso?- fa in tempo a chiedere, e lui risponde con un sorriso sghembo senza riuscire a parlare, come sempre gli capita con le domande improvvise, in un secondo è già in piedi, di spalle, corre verso la finestra, la pioggia è fitta, il ferro battuto viscido, scavalca il balconcino.

-Gli stessi occhi di bosco- è l’ultimo pensiero che fa.

Quando lo trovano, immobile, sul marciapiede, Toni sorride e sembra che dorma.   

-Non può essere caduto, non Toni, Toni no-, è quello che dicono tutti al commissario, agli agenti che formano un cordone per tenere lontano i curiosi, ai necrofori comunali che lo caricano in una cassa di zinco, prima di portarlo via.

Gli occhiali da sole, dicono, lei non li ha tolti più, fino all’ultimo giorno, dicono.


"E debbo stare attento a non cadere nel vino

 o finir dentro ai tuoi occhi se mi vieni più vicino
 La notte ha il suo profumo e puoi cascarci dentro
 che non ti vede nessuno
 Ma per uno come me, poveretto, che voleva prenderti per mano
 e cascare dentro un letto
 che pena, che nostalgia, non guardarti negli occhi.
 Almeno non ti avessi incontrato,
 io che qui sto morendo,
 e tu che mangi il gelato"

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