Per dare retta a voi siamo sbarcati
dalle nuvole, siamo colati giù dal cielo attraverso gli strappi del vento.
Siamo scivolati a valle come l’acqua dei torrenti, abbiamo
scavalcato i muri delle tanche come i cinghiali di notte, siamo ruzzolati
rapidi come i ciottoli del fiume.
Per darvi retta siamo salpati
dalle nostre isole d’erba su caravelle di cuoio, cucite con chiodi sottili di
mani e di unghie in trame fitte di maledizioni e sospiri, al barlume tremolante
di lanterne d’occhi palpitanti di preghiera.
Ci siamo alzati
dalle nostre sedie di roccia, dai nostri letti di quercia, dalle nostre vasche
d’ombra.
Ci siamo svegliati dai nostri
sogni silenziosi.
Non pareva lontana, la pianura,
da questa scheggia di sasso conficcata nel bosco, non sembrava distante la
terra piatta della valle, da questa foglia di pietra appesa a questo ramo di
cielo.
Pareva vicina come nelle giornate
limpidissime trasparenti spazzate dal vento del nord, quando sembrava fosse
sufficiente stendere il braccio per attraversare la vallata e toccare con la
mano l’altro versante dei monti, o allungare le gambe per bagnare i piedi nel
mare accecante d’occidente.
Siamo partiti prima in pochi, poi
in tanti, in fila dietro alle vostre promesse, e il vento delle vostre parole
vuote ha gonfiato le vele della nostra ingenuità.
Noi non lo conoscevamo, il vostro
mare d’inganni, noi non eravamo fatti per navigare sorrisi fasulli, per
scandagliare i fondali melmosi della menzogna, per aggirare scogli insidiosi
d’inchiostro, per galleggiare sugli abissi di parole non dette. E siamo
affondati.
Noi non avevamo occhi se non per
sorvegliare le greggi lungo il sentiero, orecchie per ascoltare l’allarme dei
cani pastore, voci per cantare a tenore alla festa grande della mietitura. Il
fiato non ci mancava, nossignore, per scalare l’altipiano d’estate, o per
scivolare in pianura d’inverno, per soffiare musica dalla canna di giunco, per
sbudellare la terra affondando l’aratro spietato come la lama dell’assassino,
più sudati dell’asino che tira la corda, con le braccia più gonfie del fiume
dopo la pioggia d’autunno, le mani più strette delle pinze del fabbro sullo
zoccolo del cavallo.
Le vedi queste dite annodate
attorno a queste mani di sughero? Queste erano mani più veloci degli occhi e
del cervello, e sfidarci alla morra era tempo sprecato. Queste erano mani
pietose sullo sguardo degli agnelli nati col percorso segnato come la pioggia
che precipita sul letto del torrente, premurose nel far nascere e morire, nel
dare e togliere la vita, senza dolore.
Queste erano mani spietate nel
vendicare l’offesa, accurate nell’innestare un figliastro germoglio sulla
pianta matrigna, prodigiose nel modellare il latte in forme rotonde di sale,
generose nello spillare allegria dal fondo delle botti.
La notte non ci ha mai fatto
paura, anche se immensa quanto l’orizzonte che avevamo di fronte, anche se più
buia dei ricordi che non tornano più, o più ripida di una sbornia, o
irrimediabile quanto un amore tradito. Non ci ha mai fatto paura, la notte,
perché abbiamo sempre saputo da cosa difenderci, e cosa temere, e come
combattere. Lo sai quando hai paura? Certo che lo sai. Hai paura quando non sai
quello che ti aspetta, quando discendi lento gradini umidi di pietra e muschio che
portano all’abisso scuro della cantina, chiedendoti cosa ci sia dietro l’angolo
buio alla fine della scala sprofondata nel nulla dell’incubo, dove da bambino
con una scusa bugiarda ti spedivano i grandi, un po’ per gioco un po’ per sfida
di uomo, e un po’ per accertarsi che non fossi migliore di loro.
E se da bambini combattevamo il
buio con le canzoni, da grandi abbiamo fatto lo stesso; e con la notte abbiamo
fatto la guerra a scoppi di vino, e col fuoco in mezzo ad un cerchio di facce,
e con i respiri nebbiosi a mischiarsi col fumo di fiamma che estorce lacrime
agli occhi prigionieri dell’orgoglio e secca la gola, ma fa del formaggio un
torrone e del caglio un confetto.
Ora si che ci fa paura, il buio,
e non perché non abbiamo canzoni da cantare o il fuoco da stringere al cuore ed
il vino da ridere, ma perché non sappiamo, alla fine degli scalini ripidi della
notte, di che colore sarà il giorno domani. Domani, per noi, è l’angolo buio
della cantina.
Ma voi ci avevate assicurato che
non c’era nulla da temere, e noi allora siamo partiti, prima in pochi, poi in
tanti, in fila dietro alle vostre promesse e il vento delle vostre parole vuote
ha gonfiato le vele del nostro coraggio.
Così abbiamo abbandonato la carne
agli artigli del falco, e gli occhi al becco del corvo, il grano al forno del
sole e alla macina delle suole, i sentieri alle unghie dei rovi, il muschio
delle rocce alle bocche affamate delle bestie.
Il custode senza controllo
diventa aguzzino, ma questo voi lo sapete, vero? Il cane libero dalla catena ha
affondato i denti nella carne del padrone, e i fiocchi di lana delle pecore
morte hanno farcito il cielo come la neve leggera di dicembre.
Gli alberi d’olivo trascurati
dalle cesoie sono diventati bastioni altissimi e fortezze inespugnabili, i
frutti grotte di larve e covi di mosche, l’oliva ha evaporato l’acqua e
avvizzito la polpa intorno al seme carbonizzato di rughe.
I maiali hanno urlato a lungo
alla notte la loro fame e la nostra indifferenza, si sono nutriti della nostra
ingratitudine, hanno triturato le catene della sete con le mascelle robuste
dell’impotenza.
I cinghiali hanno abbattuto i
muri di pietra delle vigne con la furia inesorabile dell’onda di piena del
torrente, si sono saziati della nostra assenza, si sono dissetati alla cantina
della nostra allegria senza lasciarci neanche l’ultima goccia d’oblio.
Ma voi ci avevate assicurato che
non c’era nulla da temere, e noi allora siamo partiti, prima in pochi, poi in
tanti, in fila dietro alle vostre promesse e il vento delle vostre parole vuote
ha gonfiato le vele della nostra povertà.
E quando non abbiamo avuto più
niente allora i vostri sarti ci hanno spogliato degli abiti e rivestito di
involucri, i vostri maestri hanno interrogato e promosso il suono delle parole
tutte uguali e bastonato e bocciato gli accenti, i vostri cuochi hanno cotto
senza compagnia cibi che non erano di nessuno fatti per chiunque.
L’identità negata l’avete
chiamata uguaglianza. Il passato sepolto l’avete chiamato civiltà. Il futuro
che ci avete venduto l’avete chiamato progresso. Questi rumori e questi odori e
questo fumo li chiamate tecnica. Come lo chiamate dove non cresce più niente?
Noi lo chiamiamo abbandono, noi lo chiamiamo disacattu, noi lo chiamiamo morte.
Per dare retta a voi abbiamo ci siamo ammanettati a guanti di
pelle e stretto il capo in morse di elmetti, velato gli occhi di lacrime
chimiche, incatenato i piedi a ceppi di cuoio chiodato.
Per dare retta a voi abbiamo
confuso il giorno con la notte, barattato il sonno con la veglia, svenduto la
voce delle madri e delle mogli per il suono di una campana, sezionato il corpo
giovane di una giornata di sole con il bisturi affilato delle lancette di un
orologio.
Con le parole che ci avete
insegnato non chiamiamo i nostri figli, non innamoriamo le nostre donne, non
preghiamo i nostri morti, non richiamiamo le nostre bestie; le vostre parole
non conoscono il passo del bosco e il risveglio della luce e il ronfare
sommesso del fiume. I gesti a cui ci avete ammaestrato sono tutti uguali,
ripetuti uno dietro l’altro, per tutta la durata di questa agonia di giornata
scandita dal rantolo metallico di questa maledetta sirena. Anche i nostri, di
gesti, erano uguali, lo so quello che volete dire, ve la leggo in faccia
l’arrogante supponenza della vostra scienza ignorante, ma noi abbiamo imparato
a muoverci dal mondo, le stagioni il sole e le stelle ci hanno insegnato a
danzare in cerchio, girando in tondo, e l’acqua il vento il fuoco e le bestie
ci hanno insegnato a cantare; noi abbiamo imparato a saltare dalle capre, a
mascherarci dal legno, a uccidere dall’aquila, a morire dalle foglie.
Quello che noi abbiamo fatto,
prima di dare retta voi, è stato essere parte indistinguibile dal tutto.
Noi siamo stati filo d’erba nei
campi, pioggia nell’acqua del lago, roccia nei monti, buio nella notte, silenzio
nell’ombra, vino nell’uva, farina nel grano, germoglio nel ramo.
Voi avete tutto contro, perché
pensate di essere differenti. E forti.
Ma non si può ballare in tondo
girando dalla parte sbagliata, a voi questo la scienza non lo può insegnare, ma
noi si, che avremmo potuto farlo, se aveste avuto orecchie fatte per capire il
significato delle parole.
Per dare retta a voi, abbiamo
ascoltato, ma ora voi ascoltate me.
Io lo so che vorreste sapere come
mi chiamo, che vorreste sentire il mio nome.
Ma pronunciare il nome che voi mi
avete dato, io non lo so fare; io l’ho dimenticato, il nome che mi avete dato,
Signor Giudice, anzi non l’ho mai saputo.
Come dite?
Eja, per questo l’ ho ammazzato
quel cane del capoturno. Per il mio nome.
Perché io ce l’ho un nome, da
quando sono nato, ed è il nome che mi hanno dato i miei padri, e un nome è
storia e un nome è memoria. Siete voi che dovete impararlo; in cambio vi lascio
i numeri di matricola. Ma il mio nome, come lo voleva sentire quel cane, in
italiano, io non lo so, io non ve lo dico.
Perché se quello che ci avete
venduto è un mondo catena, ricordatevi, Giudici e Marescialli, che voi sarete pure gli ingranaggi, ma noi, noi
siamo i granelli di sabbia.
E ora ve lo posso anche dire,
come mi chiamo.
Mi nanta Zuanninu Piras. De
Ardaùle.
Fizzu de Remundu e de Paska Carta.
Nessun commento:
Posta un commento