venerdì 24 febbraio 2017

Per dare retta a voi



Per dare retta a voi siamo sbarcati dalle nuvole, siamo colati giù dal cielo attraverso gli strappi del vento.
Siamo scivolati a valle come l’acqua dei torrenti, abbiamo scavalcato i muri delle tanche come i cinghiali di notte, siamo ruzzolati rapidi come i ciottoli del fiume.
Per darvi retta siamo salpati dalle nostre isole d’erba su caravelle di cuoio, cucite con chiodi sottili di mani e di unghie in trame fitte di maledizioni e sospiri, al barlume tremolante di lanterne d’occhi palpitanti di preghiera.
Ci siamo alzati dalle nostre sedie di roccia, dai nostri letti di quercia, dalle nostre vasche d’ombra.
Ci siamo svegliati dai nostri sogni silenziosi.
Non pareva lontana, la pianura, da questa scheggia di sasso conficcata nel bosco, non sembrava distante la terra piatta della valle, da questa foglia di pietra appesa a questo ramo di cielo.
Pareva vicina come nelle giornate limpidissime trasparenti spazzate dal vento del nord, quando sembrava fosse sufficiente stendere il braccio per attraversare la vallata e toccare con la mano l’altro versante dei monti, o allungare le gambe per bagnare i piedi nel mare accecante d’occidente.
Siamo partiti prima in pochi, poi in tanti, in fila dietro alle vostre promesse, e il vento delle vostre parole vuote ha gonfiato le vele della nostra ingenuità.
Noi non lo conoscevamo, il vostro mare d’inganni, noi non eravamo fatti per navigare sorrisi fasulli, per scandagliare i fondali melmosi della menzogna, per aggirare scogli insidiosi d’inchiostro, per galleggiare sugli abissi di parole non dette. E siamo affondati.
Noi non avevamo occhi se non per sorvegliare le greggi lungo il sentiero, orecchie per ascoltare l’allarme dei cani pastore, voci per cantare a tenore alla festa grande della mietitura. Il fiato non ci mancava, nossignore, per scalare l’altipiano d’estate, o per scivolare in pianura d’inverno, per soffiare musica dalla canna di giunco, per sbudellare la terra affondando l’aratro spietato come la lama dell’assassino, più sudati dell’asino che tira la corda, con le braccia più gonfie del fiume dopo la pioggia d’autunno, le mani più strette delle pinze del fabbro sullo zoccolo del cavallo.
Le vedi queste dite annodate attorno a queste mani di sughero? Queste erano mani più veloci degli occhi e del cervello, e sfidarci alla morra era tempo sprecato. Queste erano mani pietose sullo sguardo degli agnelli nati col percorso segnato come la pioggia che precipita sul letto del torrente, premurose nel far nascere e morire, nel dare e togliere la vita, senza dolore.
Queste erano mani spietate nel vendicare l’offesa, accurate nell’innestare un figliastro germoglio sulla pianta matrigna, prodigiose nel modellare il latte in forme rotonde di sale, generose nello spillare allegria dal fondo delle botti.
La notte non ci ha mai fatto paura, anche se immensa quanto l’orizzonte che avevamo di fronte, anche se più buia dei ricordi che non tornano più, o più ripida di una sbornia, o irrimediabile quanto un amore tradito. Non ci ha mai fatto paura, la notte, perché abbiamo sempre saputo da cosa difenderci, e cosa temere, e come combattere. Lo sai quando hai paura? Certo che lo sai. Hai paura quando non sai quello che ti aspetta, quando discendi lento gradini umidi di pietra e muschio che portano all’abisso scuro della cantina, chiedendoti cosa ci sia dietro l’angolo buio alla fine della scala sprofondata nel nulla dell’incubo, dove da bambino con una scusa bugiarda ti spedivano i grandi, un po’ per gioco un po’ per sfida di uomo, e un po’ per accertarsi che non fossi migliore di loro.
E se da bambini combattevamo il buio con le canzoni, da grandi abbiamo fatto lo stesso; e con la notte abbiamo fatto la guerra a scoppi di vino, e col fuoco in mezzo ad un cerchio di facce, e con i respiri nebbiosi a mischiarsi col fumo di fiamma che estorce lacrime agli occhi prigionieri dell’orgoglio e secca la gola, ma fa del formaggio un torrone e del caglio un confetto.
Ora si che ci fa paura, il buio, e non perché non abbiamo canzoni da cantare o il fuoco da stringere al cuore ed il vino da ridere, ma perché non sappiamo, alla fine degli scalini ripidi della notte, di che colore sarà il giorno domani. Domani, per noi, è l’angolo buio della cantina.
Ma voi ci avevate assicurato che non c’era nulla da temere, e noi allora siamo partiti, prima in pochi, poi in tanti, in fila dietro alle vostre promesse e il vento delle vostre parole vuote ha gonfiato le vele del nostro coraggio.
Così abbiamo abbandonato la carne agli artigli del falco, e gli occhi al becco del corvo, il grano al forno del sole e alla macina delle suole, i sentieri alle unghie dei rovi, il muschio delle rocce alle bocche affamate delle bestie.
Il custode senza controllo diventa aguzzino, ma questo voi lo sapete, vero? Il cane libero dalla catena ha affondato i denti nella carne del padrone, e i fiocchi di lana delle pecore morte hanno farcito il cielo come la neve leggera di dicembre.
Gli alberi d’olivo trascurati dalle cesoie sono diventati bastioni altissimi e fortezze inespugnabili, i frutti grotte di larve e covi di mosche, l’oliva ha evaporato l’acqua e avvizzito la polpa intorno al seme carbonizzato di rughe.
I maiali hanno urlato a lungo alla notte la loro fame e la nostra indifferenza, si sono nutriti della nostra ingratitudine, hanno triturato le catene della sete con le mascelle robuste dell’impotenza.
I cinghiali hanno abbattuto i muri di pietra delle vigne con la furia inesorabile dell’onda di piena del torrente, si sono saziati della nostra assenza, si sono dissetati alla cantina della nostra allegria senza lasciarci neanche l’ultima goccia d’oblio.
Ma voi ci avevate assicurato che non c’era nulla da temere, e noi allora siamo partiti, prima in pochi, poi in tanti, in fila dietro alle vostre promesse e il vento delle vostre parole vuote ha gonfiato le vele della nostra povertà.
E quando non abbiamo avuto più niente allora i vostri sarti ci hanno spogliato degli abiti e rivestito di involucri, i vostri maestri hanno interrogato e promosso il suono delle parole tutte uguali e bastonato e bocciato gli accenti, i vostri cuochi hanno cotto senza compagnia cibi che non erano di nessuno fatti per chiunque.
L’identità negata l’avete chiamata uguaglianza. Il passato sepolto l’avete chiamato civiltà. Il futuro che ci avete venduto l’avete chiamato progresso. Questi rumori e questi odori e questo fumo li chiamate tecnica. Come lo chiamate dove non cresce più niente? Noi lo chiamiamo abbandono, noi lo chiamiamo disacattu, noi lo chiamiamo morte.
Per dare retta a  voi abbiamo ci siamo ammanettati a guanti di pelle e stretto il capo in morse di elmetti, velato gli occhi di lacrime chimiche, incatenato i piedi a ceppi di cuoio chiodato.
Per dare retta a voi abbiamo confuso il giorno con la notte, barattato il sonno con la veglia, svenduto la voce delle madri e delle mogli per il suono di una campana, sezionato il corpo giovane di una giornata di sole con il bisturi affilato delle lancette di un orologio.
Con le parole che ci avete insegnato non chiamiamo i nostri figli, non innamoriamo le nostre donne, non preghiamo i nostri morti, non richiamiamo le nostre bestie; le vostre parole non conoscono il passo del bosco e il risveglio della luce e il ronfare sommesso del fiume. I gesti a cui ci avete ammaestrato sono tutti uguali, ripetuti uno dietro l’altro, per tutta la durata di questa agonia di giornata scandita dal rantolo metallico di questa maledetta sirena. Anche i nostri, di gesti, erano uguali, lo so quello che volete dire, ve la leggo in faccia l’arrogante supponenza della vostra scienza ignorante, ma noi abbiamo imparato a muoverci dal mondo, le stagioni il sole e le stelle ci hanno insegnato a danzare in cerchio, girando in tondo, e l’acqua il vento il fuoco e le bestie ci hanno insegnato a cantare; noi abbiamo imparato a saltare dalle capre, a mascherarci dal legno, a uccidere dall’aquila, a morire dalle foglie.
Quello che noi abbiamo fatto, prima di dare retta voi, è stato essere parte indistinguibile dal tutto.
Noi siamo stati filo d’erba nei campi, pioggia nell’acqua del lago, roccia nei monti, buio nella notte, silenzio nell’ombra, vino nell’uva, farina nel grano, germoglio nel ramo.
Voi avete tutto contro, perché pensate di essere differenti. E forti.
Ma non si può ballare in tondo girando dalla parte sbagliata, a voi questo la scienza non lo può insegnare, ma noi si, che avremmo potuto farlo, se aveste avuto orecchie fatte per capire il significato delle parole.
Per dare retta a voi, abbiamo ascoltato, ma ora voi ascoltate me.
Io lo so che vorreste sapere come mi chiamo, che vorreste sentire il mio nome.
Ma pronunciare il nome che voi mi avete dato, io non lo so fare; io l’ho dimenticato, il nome che mi avete dato, Signor Giudice, anzi non l’ho mai saputo.
Come dite?
Eja, per questo l’ ho ammazzato quel cane del capoturno. Per il mio nome.
Perché io ce l’ho un nome, da quando sono nato, ed è il nome che mi hanno dato i miei padri, e un nome è storia e un nome è memoria. Siete voi che dovete impararlo; in cambio vi lascio i numeri di matricola. Ma il mio nome, come lo voleva sentire quel cane, in italiano, io non lo so, io non ve lo dico.
Perché se quello che ci avete venduto è un mondo catena, ricordatevi, Giudici e Marescialli, che  voi sarete pure gli ingranaggi, ma noi, noi siamo i granelli di sabbia.
E ora ve lo posso anche dire, come mi chiamo.

Mi nanta Zuanninu Piras. De Ardaùle.
Fizzu de Remundu e de Paska Carta.






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