domenica 30 luglio 2017

La Sardegna, il tempo

Il ponte


La vecchia strada che dal paese portava al fondovalle era abbandonata da più di trent’anni e Nino la amava proprio per questo. Il bosco a poco a poco stava riconquistando lo spazio che gli era stato strappato: i muschi colonizzavano l'asfalto, le felci e gli asfodeli inghiottivano il bordo strada e ne disegnavano uno nuovo, i cartelli stradali e i parapetti arrugginivano e cadevano, scomparendo in mezzo all'edera. Fatta eccezione per i suoni della campagna, ovunque era silenzio.
Non dimostrava la sua età, il vecchio pastore: i capelli erano folti, il volto squadrato, abbronzato come il collo taurino, le braccia ancora vigorose, irrobustite dall’esercizio quotidiano della mungitura. Solo le gambe a volte incerte tradivano la fatica di una vita spesa dietro alle greggi. Era basso, ma la solidità con cui stava al mondo dava l'idea di un nuraghe. Sfidava il tempo, ma non per l’ambizione irriverente di sovvertire un ordine naturale di cui si sentiva, al contrario, una conferma: pensava infatti a sè stesso come ad un albero, in piedi finchè così sarebbe stato. Semplicemente.
La vecchia strada era sempre deserta: per questo Nino si stupì quando vide l’uomo elegante poggiato al parapetto del vecchio ponte sul lago.
Gli si accostò. Notò i polsini della camicia che bianchissimi spuntavano dalla giacca di un impeccabile completo blu e le mani candide, quasi trasparenti, sul cui dorso, come fuoco nella notte, spiccavano due graffi sottili - un gatto pensò, o un bambino piccolissimo - e subito, per un istante, il cuore fu stretto nella morsa del rimpianto per il padre che non era stato.
Non poté fare a meno di paragonarle alle sue, che sembravano scarpe di cuoio vecchio.
- Isperdio vi siete? -, domandò, usando la cortesia dell’italiano stentato che riservava soltanto ai forestieri. Il giovane non rispose, osservando i pennacchi di fumo che si levavano qui e là nella vallata. - E’ stagione di potatura,- continuò Nino - : i rami vecchi li bruciamo subito a sennò le piante si malàdiano; se ne accorgono, se non le curi, e a dispetto danno olive siccagne.
L’uomo si scosse: - che ore sono?-, chiese.
- Eh boh, non ne ho idea. Io mi regolo con la luce del giorno. A volte con le campane della chiesa, ma quaggiù non si sentono. Mai avuto un orologio in vita mia. Siamo vicino a mesudie, creu-.
- Ho fatto un casino - sbottò il giovane; - in due ore, in due maledette ore di mercati finanziari sballati ho bruciato milioni di euro. I clienti si sono insospettiti; ho truccato i rendiconti e per coprire le perdite, ho sottratto i soldi da altri depositi, all’insaputa dei titolari. Sono fottuto -. Parlava tormentandosi le mani che aspergeva ossessivamente di un liquido che a Nino parve disinfettante, dall’odore. Al vecchio ricordò un agnello aggredito dai cani;  aveva cercato di salvarlo medicandogli le ferite, sapendo bene che il rimedio non sarebbe stato il farmaco ma evitare che fosse rimasto solo; così gli si era seduto accanto, in attesa dell’ultimo respiro, posandogli una mano sugli occhi perché non vedesse arrivare la fine.  
Scacciò quel pensiero cattivo e continuò: - dal mese prossimo cominciamo ad arare le vigne, poi, quando sarà il momento, decespugliamo, altrimenti il fuoco si mangia tutto. Vieni, ho fame -.
Allontanandosi dal parapetto spinse oltre il bordo la grossa pietra che vi era stata depositata: cadde nel lago con un tonfo, portandosi dietro la corda alla quale era stata legata.
A Nino ricordò una stella filante, al giovane un grafico. I due restarono a guardare i cerchi che si irradiavano sulla superficie dell’acqua, finché non scomparvero. Attesero che il tempo, da solo, ne appianasse le increspature.
Si lasciarono il ponte alle spalle e senza fretta, in salita, si incamminarono verso il paese.






Il colore del tempo


In principio è soltanto una sagoma scura che sbuca tra le canne nel punto in cui il fiume piega a gomito prima di tuffarsi nel mare. Poi, mano a mano che si avvicina, prende la forma di un uccello che vola basso sul pelo dell’acqua. Soltanto quando si fa prossimo alla riva ti rassegni all’evidenza della chiglia bianca come un petto piumato, dell’ancora arancione fissata a prua quasi fosse un becco, dei remi - sottili come ali distese - che leggeri si sollevano prima di sprofondare nuovamente sotto la superfice.
Quella che hai immaginato gabbiano è nient’altro che Naveinbottiglia, la vecchia barca di Andrea che lenta, lentissima sul far della sera, rientra in porto.
Senza dire una parola ti lancia una cima, in modo che possa aiutarlo a tenere l’imbarcazione accostata al pontile, mentre lui si occupa dell’ormeggio. Sfila i remi dagli scalmi e li poggia sul fondo, uno per parte, recupera il secchio con la pesca della giornata e ti passa pure quello così da avere le mani libere e sbarcare più facilmente. L’operazione dura un tempo indefinito, che lasciate scorrere muti, disabituati a contare i minuti e le ore da quando la vecchiaia ha reso inutile ogni attesa.
-Oh-, gli dici, che è il vostro modo di dirvi ciao, fin da quando eravate bambini. E per un istante sembra ancora così, gli anni fermi a quando eri molto più alto di lui e dicevano che non sarebbe mai cresciuto, e che fosse pure un po’ tardo perché mangiava pochissimo e parlava ancora meno; ora lo guardi da sopra quel trampolino malfermo che da quasi un secolo chiamate moletto, e lui, ritto al centro della barca che galleggia un metro più in basso ti restituisce lo sguardo perso di chi cerca di capire da dove è arrivato un vento improvviso. La statura è la stessa per entrambi ormai, ma guardate il mondo da posizioni distanti: lo sguardo è una questione di prospettiva pensi, non di distanza degli occhi dal suolo.
-Com’è andata?-, gli chiedi, dopo avergli teso un braccio che lo issa al tuo fianco e che lui stringe in una metafora di abbraccio.
-Così così. Abbiamo perso due polpi, i più grossi. Troppo lenti col coppo- dice, e tu non fai neppure finta di cercare le ragioni di quel verbo al plurale - abbiamo - perché da quando siete rimasti soli Andrea, al contrario tuo, si è rifiutato di arrendersi alla spietatezza di una lingua declinata al singolare.
Avverti dietro di te lo scricchiolio delle tavole di legno che annunciano il passo e nemmeno ti volti per tentare di indovinare una destinazione che già conosci. Lo segui. Fai giusto in tempo a vederlo oltrepassare  il portone, poi il buio della chiesetta della gente di mare lo inghiotte. Lo attendi sul piazzale, mentre lui, all’interno, accende due candele di cera.
Si affaccia un attimo prima del tramonto, quando il giorno sembra indeciso tra l’andare e il restare, un passo al di qua l’altro al di là della notte. Ti raggiunge e assume la tua stessa posa: le spalle poggiate contro il muro, le mani incrociate dietro la schiena, la faccia al sole fuggiasco, gli occhi socchiusi. Chi vi guardasse da lontano non distinguerebbe l’uno dall’altro.
- Poco fa, mentre rientravo, osservavo i mulinelli sulla superficie del fiume -, dice.
Tu gli rivolgi uno sguardo interrogativo e lui allora continua: - quei piccoli vortici che la spinta dei remi produce sull’acqua, hai presente? -  dice, facendo roteare nell’aria l’indice della mano destra, per spiegarsi meglio. - Sai cosa? Scompaiono in fretta come se non fossero mai esistiti. Anche noi siamo così? Un’alterazione della superficie che si dissolve in poco tempo, senza lasciare traccia? Tu me lo sai dire, Ale?
- Non lo so- dici, come fai tutte le volte che vuoi sviare un discorso che non ti piace.
-Sai quando ci coloravamo la faccia con l’argilla?- prosegue - e sbucavamo di corsa da dietro le rocce convinti di spaventare tutti quanti, e gli amici, invece di urlare, ridevano? Oppure quando usavamo il moletto come un trampolino e ci lanciavamo nel fiume dalle biciclette in corsa? E quando ci siamo messi in testa di uccidere il drago che ci avevano detto abitasse la cava di pietra, e siamo scappati di casa con le spade di canna e gli scudi di sughero, ti ricordi che ci hanno riacchiappato che eravamo quasi arrivati? E di quando andavamo a pescare le anguille al fiume e poi passavamo la sera a staccarci le sanguisughe dai polpacci oppure quando c’era da raccogliere le pesche e tu scappavi perché ti facevano venire prurito. Te lo ricordi che andavo da zia a rubare le uova per portarti da mangiare e che quando mi hanno scoperto, fuggendo via di corsa, sono caduto in mezzo ai fichi d’india? Dove è andato a finire, tutto questo? Dove sono andati a finire tutti quanti? E noi Ale, dove siamo andati a finire, noi?
Tu non sai che dirgli però, quasi impercettibilmente, annuisci. Che significa: certo che me lo ricordo. E Andrea lo sa che ricordi, lo sa senza neppure voltarsi a guardare così come ha chiaro che non hai la più pallida idea di dove voglia andare a parare e che dovrà continuare a raccontare, per spiegarsi. E’ sempre stato così: lui a parlare e tu ad ascoltare, muto finchè non spiccichi due parole, alla fine, quelle giuste però, soluzioni buone per tutti, quelle che per te stesso non trovi mai.
Ti perdi a fissare il cielo nel punto in cui comincia a scolorire. Setacci l’orizzonte come fosse sabbia del mare, sperando di trovarci qualcosa, risposte forse, che speri compaiano dal nulla come fossero gli occhi di santa lucia che cercavate sulla spiaggia quando eravate bambini e che improvvisi affioravano sulla battigia battuta dalle onde. Annaspi cercando di acchiappare il filo di un ragionamento che scivola tra le dita come una lenza troppo pesante. Andrea lo sa. Sa che reggete la stessa cima. Solo che si è spezzata e se ognuno se ne stesse così, per conto suo, con il proprio capo di discorso sfilacciato tra le mani, senza sapere che farci andreste alla deriva e vi perdereste. Invece basta avvicinarsi, accostare l’una all’altra le due estremità e riannodarle. Lo sa, da marinaio. Infatti si avvicina. E’ sempre stato così. Tu per conto tuo, lui a fare un passo. Ed eccolo, il nodo.
- Di che colore è questo cielo?-, ti chiede, come se non fosse sazio di domande senza risposta.
-Che colore ha, Cannestorte, a quest’ora, secondo te?
-Non è di nessun colore-, rispondi. - E’ soltanto luce -. E nel frattempo pensi: noi, i mulinelli, il colore di Cannestorte. E ancora annaspi. Però paziente, attendi il senso. Perchè lo sai che c’è, un senso. Ora te lo spiega.
-No, non è così. Sai perchè ti ho raccontato di noi bambini? Perchè in quegli istanti precisi, quando piangevo per le spine dei fichi d’india, quando ridevamo saltando nel fiume nonostante le sanguisughe, quando ho preso le sberle per le uova rubate, ecco a me sembrava che l’aria, tutto intorno cambiasse colore e che quello fosse l’unico possibile. Il colore che aveva l’aria era quello di noi due in quel momento, così come quello che ora abbiamo davanti agli occhi non è il colore del tramonto ma è il colore di noi due, qui e adesso. Capisci? Ha un colore, secondo te, il tempo? Per me sì. Il tempo ha il colore delle cose irripetibili. E le cose irripetibili, non scompaiono-.
L’esplosione di un mortaretto, improvvisa, vi scuote. Guardate in aria, in direzione dello scoppio.
-C’è la festa di San Giovanni, dici. Ci sono i tavoli in strada, Ida avrà fatto i malloreddus -. Che in realtà significa: andiamo? Ti ritorna in mente una festa di ottanta anni fa: rivedi due bambini che saltano il fuoco tenendosi per mano, giurandosi amicizia eterna. Il colore di quelle fiamme, pensi, e dell’aria della notte, pensi, e delle nostre facce arrossate, e degli occhi nel buio, pensi. Il colore del tempo. Il colore delle cose irripetibili. -Pro tottu sa vida mia-, eh Andrè? Non era questo, il giuramento?
Andrea sorride. Stacca la schiena dal muro bianco della chiesetta e lentamente, dopo un impercettibile cenno del capo, si allontana a piccoli passi nel sentiero in terra battuta, tra le canne.  
-Ho capito- gli gridi dietro. - Il colore del tempo. Niente scompare Andrè, non siamo mulinelli sulla superficie del fiume! Oh, Andrè,oh! Che è il vostro modo di dirvi ciao, da quando eravate bambini.
Lui neppure si volta. Però lo sai, che sorride.

Lo osservi andar via: l’incedere curvo, il cuoio logoro del cinto che regge un paio di brache di tela che un tempo dovevano essere state blu, le macchie sul dorso della camicia cachi che sempre indossa quando va per mare e per terra. Vorresti abbracciarlo, perché così, di spalle, ti sembra ancora più indifeso e allora in silenzio, da lontano, lo fai. Lui sa che quel refolo d’aria fresca sulla nuca sei tu.


Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...