venerdì 31 marzo 2017

Il vecchio e il giovane




Poggia il bicchiere di vino sul tavolo.Conta i rebbi della forchetta una, due, tre volte. Compie la stessa operazione con le spine del pesce che ha appena finito di mangiare. Con lo sguardo passa in rassegna la sala del ristorante nel quale ogni sera, da trent’anni a questa parte, cena in solitudine: quattro tavoli rimasti vuoti, venti tovaglioli piegati ordinatamente sulle tovaglie, diciannove sedie. Da qualche tempo si è sorpreso ad enumerare mentalmente qualsiasi cosa lo circondi: i cartelli stradali, le strisce pedonali, i paletti catarifrangenti piantati lungo le strade provinciali, le fotografie appese alle pareti di quel locale nascosto dietro la via del porto.Ha cominciato a farlo quando i ricordi hanno preso a sfumare e confondersi, quando i paesaggi del passato si sono ristretti intorno ad un solo dettaglio perdendo la visione d'insieme, come in un sogno. Così ora cataloga di ogni cosa, costringendo la realtà ad un dato numerico, oggettivo, per non perderne le tracce ed avere contezza del presente. Per convincersi di continuare ad esistere, mentre uno per volta, attorno a lui, le persone svaniscono.Chiude gli occhi per un istante. Forse si addormenta.
Quando li riapre al suo tavolo siede un ragazzo sul cui incarnato scuro, incorniciato da capelli crespi, spicca un sorriso allegro, cristallino. Lo riconosce immediatamente anche se è giovane come non dovrebbe essere, come non è possibile che sia, lui ha da poco passato i 74 anni e chi gli siede di fronte dovrebbe averne altrettanti, anzi due in più, questo lo ricorda perfettamente. Ma il vecchio da tempo ha smesso di stupirsi della illogicità delle cose del mondo, quindi gli viene facile rinunciare ad interrogarsi sulla realtà.Così, per la prima volta nella serata, rompe il silenzio che si era imposto: - Non mi aspettavo di vederti qui, dice.Il ragazzo ghigna: - lo immagino. - Che ci fai?- Sono venuto per te.- Per me?- Sì, per te. Perchè sei sempre solo? Non ti annoi?- No che non mi annoio. Qui mi conoscono tutti. Alcuni si avvicinano, mi chiedono una foto, altri un autografo. Faccio due chiacchere. Non sono solo.- Non prendermi in giro. Lo sai cosa intendo. La solitudine non c’entra un fico secco con la mancanza di compagnia. Tu sei solo anche in mezzo a mille. Non mi imbrogli.L’uomo anziano capisce che non ha senso opporsi: - hai ragione tu. Vuoi sapere perchè? Perchè non c’è posto per nessun altro, ecco il motivo. Il mio spazio è questo, ormai. Prima era più grande, lo sai, eravamo tanti, c’eri tu, c’erano tutti gli altri, tutta quella gente che si sciroppava centinaia di chilometri solo per passare un pomeriggio con noi, ti ricordi? Poi, uno per volta, avete cominciato a sparire. Che senso avrebbe, accettare nuova compagnia? Per perderla? Sai com’é? E’ come quando dai una festa, poi gli invitati cominciano ad andare via e tu resti solo in mezzo ai bicchieri vuoti, alle stoviglie sporche. Hai mai ascoltato il silenzio dopo la musica, dopo le risate? Quel silenzio insopportabile, assoluto, irrimediabile? E’ finita la festa, e non ce ne potrà essere un’altra. Così ora tengo la porta chiusa. Ho transennato lo spazio, lo tengo per me. Se impedisco a tutti di entrare, non ci potrà mai essere nessuno che se ne va. E’ semplice.- E’ perché ce ne siamo andati, è questo il motivo?L’uomo anziano non risponde. Giocherella col calice di vino, lo fa roteare, il liquido scuro vortica all’interno del vetro, forma un mulinello che scompare dopo pochi istanti di immobilità.-Hai visto? Chiede al ragazzo.-Che cosa?-Il mulinello che si è formato prima nel bicchiere. Guarda ora. E’ svanito senza lasciare traccia, come se non fosse mai esistito. Sarà il nostro stesso destino, no?Il giovane non risponde, si guarda intorno: si chiede cosa si provi a cenare ogni sera in mezzo alle fotografie della loro gioventù, come ci si senta a fissare dritto negli occhi il passato imprigionato in tutte quelle immagini inchiodate ai muri, a contemplare la giovinezza sbavata dall’inchiostro degli autografi sbiaditi nel tempo. Chissà come è strano ritrovare ogni volta i compagni perduti ritratti a cinque metri dal posto in cui siedi ogni giorno, così vicini eppure così irraggiungibili.Avrebbe tante cose da raccontare al vecchio amico immobile di fronte a lui ma pensa che troppe parole sarebbero inutili. Così dice soltanto: - anch’io ero solo, tu lo sai bene. Eppure non mi hai mai fatto mancare la tua compagnia. Che avrei fatto senza di te, me lo sai dire? Ancora non riesci ad immaginare perché ho scelto di venire a trovarti, stasera?- No, dimmelo tu.- Per lo stesso motivo per cui tu l’hai fatto con me: sono venuto perché quando due solitudini si incontrano, per un po’ possono riuscire ad essere qualcos'altro.L’uomo anziano tace. Guarda quel ragazzo che mai avrebbe sperato di poter rivedere così presto, e l’unica cosa sensata che gli viene in mente è:-Te la posso fare una domanda?-Certo.-Ti ricordi gli ultimi tempi? Dicevi sempre: il macaco non vede la sua coda. Che diavolo volevi dire? Che non ci accorgiamo di quello che abbiamo intorno? Che non possiamo afferrare quello che ci lasciamo alle spalle? Che a forza di stare in gabbia, non ci accorgiamo più delle sbarre che ci tengono rinchiusi? Oppure che abbiamo bisogno di qualcuno che ci stia vicino per mostrarci quello che non vediamo, qualcuno che ci guardi le spalle per indicarci ciò di cui, da soli, non possiamo renderci conto? E’ questo quello che volevi dirmi? Per questo sei venuto? Che volevi dire, eh, Claudio? Dimmelo.Claudio Olintho De Caravalho, detto Nenè, non risponde. Ride, e senza dire neppure una parola si alza e si avvia verso una fotografia appesa a pochi passi da loro.Un secondo prima di saltarci dentro e riprendere ad occupare il posto lasciato vuoto accanto ai suoi compagni in maglia bianca, il suo posto di sempre, il primo da sinistra, in piedi, si volta e dice soltanto: - Ciao, Gigi.L’anziano si scuote.I camerieri danzano tra le sedie vuote, terminando di rassettare la sala ormai deserta. Il silenzio è rotto soltanto dal fruscio dei mocassini sulla moquette, dal tintinnio delle stoviglie riposte nei cassetti, dal picchiettare dei tasti del registratore di cassa.Il proprietario del locale si accosta al tavolo dove l’uomo è ancora seduto, immobile.-Tutto a posto Gigi? Hai bisogno di qualcos’altro?- No Giacomo, va tutto bene, grazie.Il vecchio calciatore si alza, indossa la giacca, si avvia verso l’uscita. Poi si ferma.- Giacomo?- Si?- Ti va di fare quattro passi?- Certo, andiamo.Prima di uscire si volta verso la fotografia dalla quale Claudio e gli altri compagni di squadra lo osservano tutte le sere. Volti asciutti e braccia incrociate, strette sul petto. Eleganti e austeri, perfino in quella posa statica. Resiste per una volta alla tentazione di contarli, tanto lo sa benissimo quanti sono. Undici. Per sempre, undici.Stiracchia sul volto un sorriso faticoso. - Ciao, Claudio- mormora.Giacomo lo aspetta in strada. Fa freddo. Sollevano il bavero dei cappotti, ficcano una mano in fondo alla tasca. Con quella rimasta libera abbassano la serranda del locale e si avviano, a passi lenti, lungo i portici della via Roma.
Camminano in silenzio, senza dire neppure una parola, sotto la luce gialla dei lampioni.






















martedì 21 marzo 2017

Ieri sera ho incontrato Gigiriva

- E poi?
- E poi si è alzato, ha poggiato il tovagliolo e se n’è andato.
- Così, senza salutare nessuno?
- Si senza salutare nessuno. Arriva presto, siede sempre da solo, allo stesso tavolo, mangia qualcosa e poi va via, bofonchiando un saluto a mezza voce, rivolto a chissà chi. Sempre uguale, tutte le sere.
- E tu? L’hai lasciato andar via senza dirgli niente? Senza neppure seguirlo?
- E per fare che, ma’? Per quale cavolo di motivo l’avrei dovuto seguire?
- Avresti dovuto seguirlo, porca misera, avresti dovuto seguirlo e chiedergli il numero di telefono, almeno, che ti costava? E adesso quando ci ricapita, un’occasione così...
- Chiedergli il numero di telefono? Ma sei matta? Ma tu mi ci vedi corrergli dietro lungo quel vicolo stretto, a notte fonda, e urlare: mi scusi, si fermi signor Gigiriva, che mia madre vuole avere il suo numero di telefono!


Il ragazzo vide la madre assumere un’aria corrucciata e passare in pochi istanti dalla speranza al broncio per poi ritornare un momento dopo a volgere lo sguardo alla televisione sempre accesa.
Il caldo quel giorno era soffocante.
Maggio era appena cominciato, ma quell’anno la calura era arrivata improvvisa, implacabile, scagliata dal vento di scirocco sulla città inerme, a vendicarsi di un periodo infinito di pioggia.
Ai malcapitati abitanti non restava altro che sbrogliare la matassa appiccicosa dell’aria bollente con l’unico strumento a loro disposizione, il mare, verso il quale si riversavano a migliaia abbandonando le strade, i viali e le piazze al silenzio scandito soltanto dal tubare dei piccioni.
Il ragazzo ormai non ci andava più alla spiaggia che aveva conosciuto di un bianco abbagliante, prima che mani arroganti e incompetenti  la riducessero a una spianata grigia e polverosa.
Perciò, quando la città si vuotava preferiva percorrerne le vie deserte fino all’oasi alberata in cui si trovava in quel momento, un deserto di silenzio all’interno di una città fantasma, dove poteva udire lo schiocco delle ossa dei gatti che si stiracchiavano al sole, il vento soffiare onde sull’erba e tra i fiori gialli e farsi ipnotizzare dalla danza dei pioppi sulla quinta limpida del cielo lindo come una sposa, sgombro di nuvole stanche, scure e lente come vedove, minacciose di lunghi pianti di pioggia.


Non avrei neppure dovuto cominciarla questa conversazione, pensò.
Non avrei dovuto raccontarti nulla, ecco.
Ma come cavolo ti salta in mente di chiedere a Gigiriva il suo numero di telefono?
Che poi, tra l’altro, sei stata proprio tu a raccontarmi di averlo rifiutato senza neppure degnarlo di uno sguardo, quando non solo era il calciatore più famoso d’Italia, ma anche una specie di semi-dio inseguito da uno stuolo di donne adoranti.
Mi pare quasi di vederti, passeggiare con quell’aria altezzosa che dovevi avere a vent’anni e scacciarlo come una mosca insolente con un gesto della mano; e adesso, quarant’anni dopo, mi chiedi non solo di inseguirlo, di notte, in un vicolo, ma di chiedergli pure il numero di telefono. Ma ti rendi conto, dico, a settant’anni!


Ah, ma la colpa è mia!
Non avrei dovuto raccontarti niente, e invece chissà cosa diavolo mi è saltato in mente: ieri sera ho incontrato Gigiriva, lo sai ma’?
Abbiamo quasi cenato assieme, cioè, non proprio allo stesso tavolo, vicini però, quasi a fianco.
Si è seduto in una angolo del locale, ad un tavolo apparecchiato apposta per lui: c’era un po’ di frutta, mezza bottiglia d’acqua gasata, un quartino di vino bianco e un quotidiano. Non ha salutato nessuno, nessuno gli ha chiesto nulla, nulla ha domandato ad altri.
Io l’ho visto bene, perché ero seduto a capotavola, proprio di fronte a lui.
Dopo un po’ è arrivato un pesce, una spigola mi è sembrata, senza che lui avesse ordinato alcunché. Chissà da quanto tempo frequenta questa trattoria, nascosta nel vicolo più buio e puzzolente del quartiere del porto, chissà da quanti anni celebra il  rito frugale di queste cene silenziose e sempre uguali, mi sono chiesto.
Ogni tanto sollevava lo sguardo dal piatto e ci fissava seguitando a masticare silenzioso.
Chissà come deve essere strano, ho pensato, cenare in mezzo a tutte queste fotografie appese ai muri, cento e cento ritratti di cantanti e attori e attrici e modelle e politici e uomini sportivi, tutti immortalati sorridenti e anche mezzo ubriachi, credo, tutti giovani e allegri e famosi, aggrappati alle tovaglie macchiate di sugo di questo ristorante disordinato, posticcio e rumoroso come una festa di matrimonio gitano. E nove volte su dieci e novanta volte su cento è la sua, di faccia, quella che si sporge da queste finestre sul tempo. Chissà come ci si sente a fissare dritto negli occhi il proprio passato prigioniero di quelle fotografie, chissà com’è strano specchiarti nello sguardo di quarant’anni fa sigillato dietro i vetri appannati, osservare la tua giovinezza macchiata dall’inchiostro degli autografi sbavati dal tempo che passa sopra questa galleria di fama perduta e di nostalgia, e che accumula polvere grigia sulle cornici come rimpianto sul fondo del cuore.
Chissà com’è strano ritrovare ogni sera i compagni perduti, così, a portata di mano, sulla parete a cinque metri da dove stai seduto tu, eppure così irraggiungibili.


Questo posto è così.
Invisibile, sebbene ad un passo dalla via più grande, la più importante.
Questo posto è come la gente che ci viene a mangiare e vuole scomparire al mondo.
Un posto da ubriaconi, da marinai, da puttane, da politici arraffoni, impresari scalcagnati e sudaticci; da naufraghi. Ecco un posto da naufraghi, sì.
Tutto questo disgraziato ristorante è un relitto naufragato sullo scoglio più nascosto dell’arcipelago, spiaggiato sull’isola più sporca, più buia, più puzzolente, di questo maledetto gorgo d’asfalto.
Questo è un posto per gioventù spiaggiate sulla vecchiaia, per celebrità deragliate nell’indifferenza.
Per ricordi che scivolano sulla superficie liscia dei bicchieri, dritti a capofitto fino al pozzo scuro del rimpianto.
Questo è un rifugio per oggetti che non troverebbero posto in nessuna cantina, è il mare in cui si ostina a galleggiare tutto ciò che non vuole rassegnarsi allo sprofondo: rancore, amore, rabbia, gioia, memoria, illusione o verità che sia.
Qui tutto è autentico e di cattivo gusto come le stelle marine di cartongesso azzurro inchiodate sui muri di pietra cruda, qui c’è il mondo così com’è, ma che al di là quella porta finge di essere altro.
Per questo ti saresti potuta trovare a tuo agio, seduta a questi tavoli.
Tu non hai mai avuto vergogna di ruotare i polsi e mostrare il profilo spesso delle cicatrici lasciate dalle lamette.


Ho pensato che ti sarebbe piaciuto, questo posto, lo sai?
Ho pensato che se ci fossi stata ti saresti alzata e saresti andata dritta al suo tavolo. Sfrontata.
- Ciao Gigi, mi posso sedere?-.
Tanto sta sempre solo.
Nessuno lo disturba, nessuno gli rivolge la parola, sebbene tutti sappiano chi sia.
Io non credo che lo facciano per rispetto.
Questa città non conosce il rispetto, altrimenti ne avrebbe avuto innanzitutto per sé stessa.
No, questa città è incline all’amnesia o, peggio ancora, all’indifferenza.
Questa è una città che quando non dimentica, finge di non ricordare.
Quando ricorda, fa finta di dimenticare.
Quando conosce, finge di ignorare.
Ma tu non sei mai stata così, tu sei diversa.
Tu hai sempre avuto una grande faccia tosta, ammettilo.
Gli avresti sorriso con quella sfacciata irriverenza che hai tutte le volte che stai bene, tutte le volte che il ringhiare del cane nero si prende una pausa e ti lascia dormire, tutte la volte che una qualche catena lo tiene lontano e gli impedisce di azzannarti il cuore.
Lui avrebbe alzato gli occhi dal piatto e almeno all’inizio non ti avrebbe detto niente.
Poi a poco a poco avreste cominciato a parlare, anzi, è più probabile che lo avresti costretto a parlare perché quando non spranghi di silenzio le porte sul mondo a te le parole non bastano mai.
Avreste parlato, ne sono sicuro.
Quando due solitudini si incontrano, per un po’ si illudono di essere qualcos’altro.


Alla fine vi sareste alzati, avreste poggiato il tovagliolo sul tavolo e ve ne sareste andati.
Senza salutare nessuno. Senza dire niente.
Avreste abbandonato il tavolo e la città e il cuore al disordine, avreste attraversato i vicoli bui fino alla luce arancione di via Roma dove avreste passeggiato di nuovo in silenzio, fianco a fianco, vicini eppure inavvicinabili l’uno all’altra, come le coppie novizie di un secolo fa.
E poi, magari nell’angolo più nascosto alla fine del portico, vicino alla casa dello studente, dove nessuno avrebbe potuto scorgervi, vi sareste dati la mano.
Io l’avrei raccontata a tutti questa cosa ma’, di questo nome così importante, sai che figurone avrei fatto in ufficio, che tanto a quelli importano solo le etichette, figurati cosa ci avrebbero capito di questa cosa, niente ci avrebbero capito, avrebbero sentito solo il nome importante, che è l’unica cosa che conta, per loro, e tutta una questione di nomi, il nome sulle scarpe, il nome sulle borsette, il nome sul risvolto della giacca degli abiti eleganti, il nome dei prodotti finanziari, il nome delle truffe, il nome degli imbrogli, i nomi che si inventano per non avere ribrezzo di sé stessi.
Cosa gliene sarebbe importato della tua felicità? Niente, come non è importato mai niente a nessuno, come a nessuno importa mai davvero la felicità degli altri più della propria.
Sarebbe stato bello se ieri sera ci fossi stata anche tu, vero ma’? Già, sarebbe stato bello.
Invece lui si è alzato, perso come sempre dietro al proprio silenzio e a chissà che altro.
Lui si è alzato ricalcando le orme tracciate dal suo sguardo basso e senza dire una parola si è chiuso la porta alle spalle.
E se n’è andato.


Al ragazzo sembrò quasi di vederla, la madre, assumere un’aria corrucciata, passando in pochi secondi dalla speranza al broncio per poi tornare un istante dopo a volgere lo sguardo alla televisione sempre accesa.
Tutto questo, le avrebbe raccontato, se avesse potuto farlo: ieri sera ho incontrato Gigiriva, lo sai ma’?.
Invece, vergognandosi un po’ di quella conversazione immaginaria, si alzò, sistemò i fiori sulla lapide, diede un bacio alla fotografia e si incamminò verso casa.
Il caldo quel giorno era soffocante.
Maggio era appena cominciato, ma quell’anno la calura era arrivata improvvisa, implacabile, scagliata dal vento di scirocco sulla città inerme, a vendicarsi di un periodo infinito di pioggia.
Ai malcapitati abitanti non restava altro che sbrogliare la matassa appiccicosa dell’aria bollente con l’unico strumento a loro disposizione, il mare, verso il quale si riversavano a migliaia abbandonando le strade, i viali e le piazze al silenzio scandito soltanto dal tubare dei piccioni.
Il ragazzo ormai non ci andava più alla spiaggia che aveva conosciuto di un bianco abbagliante, prima che mani arroganti e incompetenti  la riducessero a una spianata grigia e polverosa.
Perciò, quando la città si vuotava preferiva percorrerne le vie deserte fino all’oasi alberata in cui si trovava in quel momento, un deserto di silenzio all’interno di una città fantasma, dove poteva udire lo schiocco delle ossa dei gatti che si stiracchiavano al sole, il vento soffiare onde sull’erba e tra i fiori gialli e farsi ipnotizzare dalla danza dei pioppi sulla quinta limpida del cielo lindo come una sposa, sgombro di nuvole stanche, scure e lente come vedove, minacciose di lunghi pianti di pioggia.

mercoledì 15 marzo 2017

Claudio, la Rivoluzione ed io.

Come.
Una.
Ossessione.

Così, allo stesso modo, quelle vecchie fotografie in bianco e nero comparivano dappertutto.
A pensarci bene è probabile che ciascun abitante di questa città ne possedesse almeno una; a pensarci ancora meglio, ci si innamorava di quelle stampe fin da bambini e perfino chi al tempo di quegli scatti non era ancora nato oppure era troppo giovane per ricordare quei giorni gloriosi di primavera, finiva per prendersene cura come se fosse stato anch’egli presente a quegli avvenimenti.
Chi conservava quelle immagini, comunque, il più delle volte le esponeva in bella vista; nel caso contrario invece, i più riservati, sacerdoti di ricordi, le custodivano gelosamente come fossero reliquie, preservandole dalla troppa luce e dal calore, curando che la polvere non le rovinasse irrimediabilmente. Chiunque abbandonasse i propri passi alle strade di quest’isola, dai grandi centri ai piccoli villaggi, non poteva fare a meno di notarle appese ovunque, incorniciate pomposamente, impreziosite da coccarde bicolori o semplicemente sigillate tra due lastre di vetro o ancora più spartanamente appiccicate con del nastro adesivo su qualsiasi superficie utile: dalle vetrine dei bar agli uffici, dalle officine alle edicole, dai saloni dei barbieri agli studi fotografici, fino ai box dei mercati civici dove condividevano la posizione più importante e più in vista con Cristi, Santi e Madonne, e insieme vegliavano su clienti, pesci da zuppa, molluschi, polpi e murene; e sugli incassi, ovviamente. In tutte, lui era il primo da sinistra, in piedi. Volto asciutto e braccia incrociate, strette sul petto. Elegante, perfino in quella posa statica. Magrissimo, scuro, austero. Tra tutti gli altri uomini in maglia bianca, era il più serio.
Ma era lo sguardo, in realtà, a colpirti lo stomaco spezzando il fiato come un pugno a tradimento: ad una prima occhiata sarebbe potuto sembrare triste, ma chiunque si fosse abbandonato ad una osservazione più attenta, invece, lo avrebbe scoperto meditabondo, concentrato su qualcosa sospeso alle spalle dei fotografi schierati di fronte. Perso oltre il prato verde, oltre il pubblico trepidante, oltre le gradinate di cemento e legno e tubi innocenti. Perso in un altro luogo. In un altro tempo. 

In questo luogo e in questo tempo, invece, a quarant’anni di distanza da quegli istanti immortalati dalle macchine fotografiche, ci accorgiamo della sua presenza quando ancora i palazzi attorno lo nascondono alla nostra vista.
- Il macaco non vede la sua coda - urla.
Grazie all’inconfondibile grido di battaglia, lo riconosciamo ancor prima che la sua esile figura, trascinata da piccoli passi affaticati, compaia in cima alla breve ma ripida salita che conduce alla piazzetta silenziosa, destinazione finale del suo vagabondare quotidiano. Il pendio d’asfalto non si è incattivito sui polmoni al punto tale da spezzargli il fiato, comunque: il vecchio annuncia ai presenti la sua ciondolante e sgangherata follia e un’allegra ubriachezza. Sebbene sprofondi in abiti divenuti col tempo troppo larghi, il sorriso è ampio, spiritato; in fondo alle braccia lunghe e sottili le mani nodose reggono due buste azzurre piene di bottiglie di birra. E’ alto come lo era da ragazzo e magro però, molto più di allora. I capelli sono crespi, lo sono sempre stati; non li ha perduti, ma sono grigi ormai, comunque belli, lunghi e scompigliati come una lenza ingarbugliata. La pelle del viso tende le poche rughe sulle ossa sporgenti del cranio cosicché, ad una prima occhiata, il tempo non sembrerebbe aver inciso sul volto segni irrimediabilmente profondi. La sofferenza non affiora che dall’abisso degli occhi, scivolati nelle orbite come l’acqua di un lago adagiato a fondo valle: solo approfittando dei brevi istanti di bonaccia, è possibile coglierne l’inquietudine, quando la pupilla immobile al centro dell’iride pare illuminare gli anfratti di un pozzo nero sprofondato nel passato. L’allegria innata, il sorriso buono, l’alcool, sono in fondo vento che increspa la superficie di uno sguardo raramente quieto, sono tempesta che travolge immagini e schianta la memoria sugli scogli aguzzi della follia; tutto ciò che riemerge, quando il fortunale si placa, sono ricordi alla deriva, detriti di storie, schegge di esistenza che si arenano sulla spiaggia di questa piccola isola di granito, alberi ed erba spelacchiata. Le parole del vecchio sono una risacca di vita smembrata dalle folate improvvise della pazzia, frammenti dispersi nelle nebbie della mente che il sole lucido della coscienza superstite di tanto in tanto dissolve; le storie che racconta sono brandelli sepolti dalla sabbia dell’oblio, che la marea del caso talvolta riporta alla luce dalle buche profonde del tempo andato. Quanto tempo, andato…

Molto prima di diventare un vecchio, prima di scavalcare gli anni e saltare i continenti, un bambino corre lungo i vicoli di cartone e lamiera del suo quartiere. E’ un altro luogo e un altro tempo e non pensa nemmeno che possano esistere giorni e paesi diversi da questi. Il bambino è nuvola di polvere bianca sulla pelle scura, lacrime di sudore sulla schiena, fiori di sangue fresco che sbocciano sulle ginocchia scorticate e croste di sangue secco sui gomiti spuntati. Il bambino è una cicatrice al giorno. Ferite aperte al mattino e chiuse la sera, come ogni giornata che le finestre sigillate dalla plastica riciclata ritagliano su questa vita di scarto.
Le baracche spuntano dappertutto, nascono e crescono a casaccio come i ragazzini che sciamano nel labirinto di stradine strette tra le casupole rattoppate. – Questi mocciosi sono come le catapecchie che vedi qui intorno: alcuni stanno in piedi, altri no-. Così parla l’uomo che tiene a bada quel nugolo di moscerini perso dietro un pallone di stracci cuciti alla bell’e meglio. Così racconta l’allenatore di quel manipolo di monelli ossuti e seminudi al forestiero venuto dalla città a godersi la partitella nella favela di Santa Rosa.
- Ti abbiamo notato, prima, durante la partita: un forestiero è più evidente di una suora in un bordello; ci chiedevamo solo se fossi uno sbirro, un justiceiro, che poi non fa molta differenza, o un altro di quei pervertiti che offrono 10 reais per una ciucciatina di uccello.   
E invece mi vieni a raccontare che vuoi portare il ragazzino a Santos, per giocare nella squadra più forte di questo fottuto paese? Vitto, alloggio e scarpe gratis. Che ti sembra bravo, dici. Ci puoi giurare che è bravo, un fenomeno, esattamente come Buscapè. Anzi, pure meglio: quando giocavano insieme non c’era niente da fare, non c’era neppure bisogno che si guardassero, si fiutavano l’un l’altro come fossero gemelli. Non li batteva nessuno, i bambini prodigio. Poi però Buscapè è scomparso. Tre anni fa è volato via come la polvere di questo immondezzaio: - tra due ore sono qua -, ci disse. L’abbiamo aspettato, certo, glielo avevamo giurato; però tre giorni dopo siamo ritornati al campo, con il pallone tra i piedi. 
C’è voluto più di un anno per convincere il ragazzino a ricominciare a giocare. Quattrocentoquaranta giorni che lui ha trascorso seduto dove ora siamo seduti noi due, voltato verso la città, ad aspettare il suo compagno preferito: gliel’ abbiamo promesso, ripeteva. 
Se adesso venisse con te, a noi cosa rimarrebbe? Non vinceremmo più neanche una partita, ecco cosa succederebbe; questa squadra sgangherata si sbriciolerebbe come la terra di questo campaccio e io me ne tornerei ad allenare le galline a fare le uova. Un accordo, però, lo possiamo trovare; facciamo così: tu porti scarpette, palloni, tute e magliettine per tutti, e il ragazzino, da domani, può venire ad allenarsi con voi, se vuole -. 
Il bambino corre lungo i vicoli di cartone e lamiera del suo quartiere. Il bambino è nuvola di polvere bianca sulla pelle scura, lacrime di sudore sulla schiena, fiori di sangue fresco che sbocciano sulle ginocchia scorticate e croste di sangue secco sui gomiti spuntati. E’ un altro luogo e un altro tempo e non pensa nemmeno che possano esistere giorni e continenti diversi da questi. L’allenatore lo richiama con un fischio, gli fa cenno di avvicinarsi, e lui obbedisce. - Questo signore è qui per te -, gli dice. - Ricordati di essere rispettoso ed educato, perché solo così si diventa uomini. E solo l’uomo onesto e leale diventa un campione-. Il bambino fissa negli occhi l’uomo elegante che ha visto parlare con l’allenatore, durante tutta la partita. Poggia mani sui fianchi e blocca il pallone sotto la pianta del piede. Si avvicina, gli dice il suo nome. E gli sorride.

C’è una panchina su cui ogni giorno il vecchio riposa, raccontando quello che ricorda o crede di ricordare, mescolando realtà, visioni, rimpianti e sogni. Ci siamo anche noi, seduti in questa piazza: vagabondi di ogni età, superstiti quanto lui a onde forse troppo alte, a vele troppo fragili per venti così forti. Aggrappati a questo atollo di granito, a questa spiaggia di sampietrini su cui il nostro passaggio non lascia impronte, abbandonati su queste scialuppe di ferro verniciato, stiamo, come le palme alte scompigliate dal vento. Ridiamo, piangiamo, parliamo, dormiamo, ci ubriachiamo, viviamo così come viene. 
Tutto intorno è la città, mare troppo pericoloso anche per i naufraghi più coraggiosi. Infido e traditore come una donnaccia da osteria. Tutto intorno è maremoto d’auto, scrosci di rabbia, schiuma di indifferenza. Meglio stare qui, al riparo di questa piazza sottovento abbracciata dalle facciate colorate di queste case antiche, fermi immobili ad ascoltare le storie del vecchio che talvolta si attarda a farci compagnia, seduti e zitti a testa china, persi ognuno dietro il proprio rimpianto come marinai in pensione alla bettola del porto.
 Il vecchio racconta i suoi spezzoni di vita a brandelli e di tanto in tanto, quando meno te lo aspetti, smarrita la bussola del tempo e dello spazio, in piedi e rivolto ad una platea invisibile, da’ voce ai suoi fantasmi: – grazie, grazie a tutti – grida alle stradine laterali e alle scalette che si arrampicano verso la Città Alta e il Castello; urla come se i balconcini qui intorno fossero gradinate gremite di pubblico festante: – Siamo grandi amici. Ah sì, grandi amici. Voi mi avete ammirato, voi mi avete adorato e io vi ringrazio, sono orgoglioso di voi. Orgoglioso, sissignore, orgoglioso e fiero. Eravamo i più forti, noi. I più forti del mondo. Nessuno, ci poteva battere. Proprio nessuno -.
Ha conservato l’eleganza innata dei movimenti, una classe che la consunzione non è riuscita del tutto a cancellare. Il ritmo e la musica che lo facevano danzare sul vecchio prato alla periferia della città scorrono ancora sotto la pelle e nelle vene sporgenti. Le movenze fluenti nascoste appena dai piccoli passi delle gambe affaticate sono le stesse che ubriacavano gli avversari, le stesse che incantavano e strappavano grida di entusiasmo, imprecazioni e bestemmie, fino a qualche  tempo fa. Sembra quasi di sentirli, i racconti dei fortunati che l’hanno visto trascinarsi dietro l’intera squadra avversaria, stordita da quella danza impossibile, e servire infine alla spietata freddezza dell’attaccante il più facile dei palloni. Sembra quasi di vederlo.
Tutti conosciamo il suo nome e cosa lo abbia portato fin qui; cosa invece lo abbia obbligato a restare e a non fuggire, quando tutto è finito, possiamo solo immaginarlo, anche se forse è un mistero che non riusciremo mai a comprendere del tutto, per il semplice fatto che la sua catena e la nostra sono saldate allo stesso lucchetto che vincola noi a questa terra, a questa città, a questa piazza, a questa panchina. Chi nasce in gabbia non si accorge delle sbarre: il macaco non vede la sua coda…
Lo conosciamo tutti, il vecchio, anche se molti di noi sono troppo giovani per averlo visto volare sul vecchio prato verde; oggi possiamo solo essere spettatori di questo strascicarsi sui sampietrini di porfido, piccoli e squadrati, che confinano l’erba ai margini, sulle aiuole, poca e spelacchiata per giunta, come il manto di un cane ammalato. 
Ma chi non lo riconoscerebbe? Succedono così poche cose importanti, sotto la serenità di questo cielo immobile, che il ricordo abbagliante di un fulmine te lo porti appresso fino al buio della tomba, e lo racconti ai tuoi figli, e ai tuoi nipoti, come mio nonno ha fatto con me. E quella di allora sì che fu una bella tempesta: tuoni tanto forti da scuotere la dannata isola e tutto il maledetto continente. Non si parlava d’altro, quarant’anni fa…

Il ragazzo vola su ali di fischi e grida e fiati sospesi, scivola veloce sopra il grande campo d’erba della piccola città. Non si è mai visto niente del genere: perché il ragazzo è nero e quaggiù, di mori, non ne sbarcavano dai tempi delle invasioni saracene; e poi perché nessun avversario riesce a stargli dietro. Semplicemente, non ce la fanno. 
Sono tutti convinti che il fuoriclasse di questa squadra sia il numero undici, l’attaccante: il freddo, micidiale, spietato giustiziere mancino. La stampa nazionale si spertica in lodi osannanti, studia metafore mitologiche, gareggia nel fabbricare neologismi improbabili ed evocativi.
Tutte cazzate. 
Lasciatelo dire a me, che in ottant’anni di vita ho visto decine di giocatori vestire questa maglia. Come lui, nessuno. Io c’ero già, agli inizi del secolo, quando nella Piazza d’Armi si tiravano i primi calci al pallone, sfidando i marinai inglesi che sbarcavano alla Darsena da piroscafi con nomi impossibili. Io c’ero, quando ci fu da riempire di sabbia le voragini aperte dalle bombe degli anglo-americani nel campaccio di via Pola. E ci sono anche oggi, anno 1970, con il mondo sottosopra e il vento che pare cominci a soffiare dalla parte giusta.
Se non ci fosse lui, i nostri centravanti vagherebbero in mezzo al campo come bambini smarriti: sembra che li tenga per mano, mentre corre. Se non ci fosse lui, non conosceremmo l’elegante austera potenza di un passo di danza, la semplicità della forza atletica, la facilità di un passaggio, la taciturna modestia di una classe innata. 
Quest’anno non ci batte nessuno. Proprio nessuno; poco, ma sicuro. 
Così pensiamo mentre seguiamo con occhi sgranati le sgroppate infinite lungo le fasce laterali. Così pensiamo mentre sugli spalti e intorno al campo è un incalzarsi di panico e speranze, è tutto un rincorrersi di sguardi, di migliaia di sguardi allarmati e fiduciosi e di fiati sospesi e grida di incitamento e di paura, un inciampare di occhi sui piedi che danzano eleganti, prima che distenda le lunghe gambe in falcate sempre più ampie e leggere lanciate al di là del suo stesso sguardo, quasi voglia arrivare con due balzi al di là del mare.
Il ragazzo ha un solo pensiero in testa: correre. Sembra non volersi fermare mai, come fosse una preghiera sgrana la corsa in un rosario di passi: una supplica per ogni grano, per ogni grano l’invocazione di un paradiso perduto.
E tutte volte, un attimo prima che il campo finisca in una ghigliottina bianca di gesso, nell’istante in cui la linea di fondo spegne ogni speranza che si possa scavalcare il tempo, e aggirare lo spazio, solleva lo sguardo e si volta a sinistra. Io lo so, perché: spera fino all’ultimo che il passato abbia saputo correre veloce quanto lui; io so che volge lo sguardo alla sua sinistra, per mezzo secondo, senza scomporre mai la corsa elegantissima, solo per vedere se per caso, o per qualche strana magia, ci siano i suoi fratelli, ad aspettarlo in mezzo al campo: quella banda scalmanata di ragazzini cenciosi e coperti della polvere bianca del campaccio della favela di Santa Maria; perché sogna ogni volta di non aver corso invano, in un’azione perfetta,  ma solitaria.
Questo mi racconta ogni domenica sera, seduto al tavolo di un ristorante del centro città. Io lavoro qua: caposala Vincenzo Innocente, per servirvi. Cameriere dal martedì al sabato, pescatore dalla domenica al lunedì. Comunista sempre, tutti i giorni.
Questo ci raccontiamo anche oggi, dopo l’ultima vittoria di una primavera incredibile e bella, dopo questo ennesimo miracolo di fine anni ‘60, nel giorno in cui davvero si realizza l’utopia degli ultimi che arrivano davanti ai primi. - Abbiamo battuto tutti, ragazzo. I padroni arroganti, gli industriali che sfruttano i nostri emigrati, i continentali ricchi che mentre ci sfottono rubano la terra più bella di quest’isola, chi mangia la nostra pelle e sulla nostra pelle, chi non ci considera nemmeno sardi, nemmeno uomini, nemmeno e basta. Oggi siamo apparsi a tutti quelli per cui siamo sempre stati invisibili: li stiamo facendo cagare addosso. E’ la primavera del 1970, ragazzo. La primavera del nuovo mondo. Del mondo che cambia e ribolle di rabbia. Quale anno migliore avremmo potuto scegliere, per questa rivoluzione? -. 
Lui non risponde. Sa che gli dobbiamo una grossa parte di questa vittoria. Ma tace. Lo sguardo è serio, come sempre. Lo stesso delle fotografie scattate in mezzo al campo, insieme agli altri, prima della partita. Io lo conosco, quello che cerca il suo sguardo: è la polvere che si alza nel cielo, durante una partita a piedi nudi, di troppi anni fa.
Rimangono solo tovaglie macchiate di vino, e cenere e briciole sparse per terra, bicchieri rovesciati. Rimasugli: come sempre, avanziamo noi due, alla fine della nottata, dopo che tutti i compagni sono andati via, a casa o a continuare la festa altrove, insieme ai camerieri, ai cuochi, alle donne delle pulizie, a tutta la città e a tutta l’isola, tutti via, in strada, che oggi è una di quelle giornate che non si ripeteranno mai più. Come una rivoluzione.
Restano sempre molte parole non dette, forse, eppure dopo che il fiato brucia piano come il tabacco buono, noi tacciamo in un silenzio freddo di cenere; restiamo seduti ugualmente, perché amiamo gustare il fumo e l’aroma di ciò che resta in sospeso volteggiare silenzioso nell’aria. Così parliamo fino a che non abbiamo più niente da dire, finché non decidiamo di tappare tutti i discorsi rimasti a metà dentro le bottiglie vuote, per gustarceli nuovamente in seguito, in un’altra occasione, se e quando ce ne tornerà la voglia. 
Prima di uscire affido la macchina fotografica al lavapiatti, prima che scappi come tutti gli altri: - scatta, gli dico, che questa è da conservare per i nipoti!-.
La città è una gigantesca orgia di gioia, un formicaio impazzito. 
Il vicolo su cui ci affacciamo, uscendo dal ristorante, è una lunga lama conficcata nel cuore del quartiere del porto; per fortuna è deserto. 
Incrociamo solamente un padre che tiene per mano un bambino molto piccolo. Il padre riconosce subito il ragazzo, mentre il bambino si ferma a fissare quel giovane alto e scuro immobile al centro della via. Tutto si ferma allora, nel vicolo risparmiato dal caos che invade ogni angolo di strada, congelato insieme agli occhi spalancati del bambino, al sorriso incredulo del padre, al fiato sospeso del ragazzo accanto a me, che si anima all’improvviso e comincia a mormorare dei nomi sconosciuti. 
- Buscapè !-, lo sento esclamare; non capisco subito, lo vedo inginocchiarsi e tendere una mano verso il bambino: - ciao -, gli dice, lo sai chi sono, mi riconosci ? -.
Il bambino, disorientato dal fatto di sentirsi chiamare con un nome che evidentemente non è il suo, è paralizzato dalla paura e dall’emozione. Si volta verso il padre, sperando in un suggerimento, o solamente per assicurarsi della sua presenza, e scuote lentamente la testolina di capelli crespi, mentre gli occhi nerissimi si spalancano in una minaccia di pianto: - come ti chiami?- riesce a dire, soltanto.
Il ragazzo si avvicina, lo prende in braccio, gli dice il suo nome. E gli sorride.

Quarant’ anni fa i passi del vecchio non erano incerti come lo sono ora: sembrava che con due salti potesse scavalcare il mare, così si racconta. Oggi non ha più bisogno di corse tanto lunghe e veloci, non sogna più di scavalcare l’oceano con due balzi e tornare a casa, ora la meta è distante un passo: posa per terra la busta azzurrina colma di bottiglie di birra, e farfugliando una litania complicata di nomi, si lascia cadere a peso morto sulla panchina. 
A volte la filastrocca si ingarbuglia come una lenza, e attorno al mulinello del tempo si annodano passato e presente, infanzia, gioventù e vecchiaia, realtà e allucinazione, sogno e incubo. Allora bisogna sforzarsi un po’ per dipanare la matassa intricata della memoria, per tirare i fili giusti del ritornello, quelli che districano il groviglio di parole in una cantilena appena comprensibile: - Bertosi Zignè Joao, Cera Niccolai Gabeleira, Domingo Claudio Paraiba, Riccio e Buscapè. Eravamo bravi, proprio bravi, i più bravi del mondo. I bambini prodigio. Abbiamo battuto tutti, nessuno ci avrebbe potuto sconfiggere, proprio nessuno -. 
Il vecchio nuovamente si leva in piedi e prende a salutare con foga crescente gradinate immaginarie, vuote e silenziose, a ringraziare uno stadio deserto: - siamo grandi amici, io sono orgoglioso di voi, mi avete ammirato, mi avete adorato e io non mi dimentico, io vi voglio bene, io ho voluto bene a questa nostra terra, la nostra Sardegna. Orgoglioso, io sono orgoglioso e fiero di voi, come voi siete stati orgogliosi di me. Grazie amici, grazie a tutti -. 
A parte noi due però, ormai non resta nessuno in questo minuscolo giardino al centro della città, nascosto dietro la via commerciale, sopravissuto alle case basse di inizio secolo ed ai palazzotti signorili dalle facciate color pastello. Sembra disegnata dai bambini, questa piazzetta che dello stadio non ricorda neanche lontanamente le dimensioni ma solo, vagamente, la forma: ovale, tonda sul fondo e stretta in cima, a punta come una lacrima d’acqua, che gocciola dal tubo stretto della viuzza San Domenico. C’è silenzio, quasi sempre, e due palme alte che fanno da guardia agli olmi, a otto panchine e ad un piccolo crocefisso. Ci sono dei lampioni di ferro battuto tutto intorno, piantati su pali sottili e grigi, anch’essi in ferro, oppure sostenuti da piccole ringhiere scure, che sporgono dalle facciate delle case come luci da un albero di Natale. La mattina e il pomeriggio, quando il sole si affaccia sopra questo secchiello di colori, la piazza si illumina come un mappamondo per bambini: gli stati, tutti di una tinta diversa, sono queste case, gli alberi e la terra delle aiole sono le pianure e i monti, il cielo è il mare. All’imbrunire invece, i lampioni diffondono tutto intorno una luce arancione, una nebbiolina che cambia nuovamente lo sfondo del paesaggio. Le chiome degli alberi diventano blu, e i tronchi grigi, i sampietrini rosa pallido, le case di tutti i colori. Sembra un’alba al contrario, ritardataria, notturna, che arriva alla fine del giorno. 
Si sta bene, qui. 
Da soli.
Oppure ha ragione lui, forse c’è un mare di gente, e sono io a non vedere, accecato dalla quotidianità, la folla assiepata sulle gradinate del tempo, rinchiusa dietro i cancelli della memoria ignorata e cancellata. Mi viene da pensare a quanto sarebbe migliore il mondo, se come lui avessimo sempre il passato davanti agli occhi. - Il macaco non vede la sua coda. Nel canale Mammaranca-. Chissà quante persone ci sono, imprigionate nella testa del vecchio: - Belè, Gabeleira, Scopinho, Domingo, Thomàs, Ricciotti, Thiago, Angelica, Paraiba, Claudio, Buscapè -. Tutte le volte quasi come una preghiera. Una parola magica. Un richiamo. Un’invocazione: - Buscapè.
Buscapè.
Buscapè -.
Ad un certo punto, però, sembra accorgersi di tutta questa assenza palese e muta; tace all’improvviso, mi guarda serio, poi d’un tratto sorride con tutti i denti che gli restano. E con due passi scavalca con un balzo il mare di pietra che separa le nostre panchine.
- Ciao Buscapè, bambino prodigio-, mi dice, - il macaco non vede la sua coda -.
Ma io sono solo un ragazzo, penso, come lo sei stato tu quaranta anni fa, quando eri il più forte di tutti. Chissà se lo sono mai stato, un bambino; prodigio poi, sicuramente no, mai.
E di macachi tra l’altro, a parte noi due, vecchio, qui non ce n’è neanche l’ombra. 
- Ma tu ti ricordi di me? Lo sai chi sono? 
Questa volta la voce segue i pensieri, e rompe il silenzio prima che la possa fermare: - certo che lo so, chi sei -. 
-Eh vai!-; il vecchio continua a parlare come se non avesse sentito, riempie di birra altri due bicchieri, uno per ciascuno. Sembra seguire con lo sguardo la rotta delle parole che rotolando via dalla sua bocca tracciano traiettorie impossibili, rimbalzano sui muri delle case e sugli occhi dei pochi passanti, riecheggiano in grida di rondini e sguardi distratti, perdendosi infine lungo i torrenti di vicoli che si riversano nel grande fiume in piena della passeggiata cittadina.
- Ma che fine hai fatto Buscapè, lo sai per quanto tempo ti ho aspettato?Più di un anno, amico mio. Adesso non c’è più la terra battuta, vedi, hanno messo questi sassi quadrati, così non ci sporchiamo di polvere come quando eravamo bambini, e se cadiamo, le ginocchia non ce le sbucciamo più. 
Ora non c’è più nessuno che ci può portare via, stai tranquillo, eh. Più lontano di così, dov’è che vogliamo andare? Siamo ancora in tempo, per la partita, eh Buscapè? Facciamo ancora in tempo, a ricominciare a giocare?-.
Quando mi fissa dritto negli occhi sembra quasi accorgersi del mio smarrimento, ma è una consapevolezza che dura il tempo di un bicchiere svuotato d’un fiato: - eh vai -, dice – allora torniamocene al tuo ristorante, a quest’ora starà chiudendo, non lo vedi che è notte? Mi ricordo del ristorante. Andavamo sempre lì, a festeggiare. La rivoluzione! Te la ricordi tu la rivoluzione?: e ricomincia con tutti quei nomi in fila, uno dietro l’altro, come una preghiera. La filastrocca ingarbugliata del tempo. - I camerieri saranno già andati via, i cuochi staranno dando l’ultima lucidata ai fornelli. Ci sediamo al nostro tavolo, e finiamo la serata a guardare come il fumo si annuvola contro il soffitto -. 
A me sembra di averla già sentita da qualche parte, la storia del ristorante e della rivoluzione, ma alla fine non ci bado più di tanto e uno stormo di piccioni mi distrae definitivamente, atterrando scomposto ai nostri piedi per razzolare le briciole del pane che abbiamo rosicchiato aspettando la sera.
- Guarda! -, mi fa, - i bambini prodigio; rispettosi ed educati, perché solo così si diventa uomini. E solo l’uomo onesto e leale diventa un campione-.
I piccioni quasi sembrano capire e con rispetto, una volta terminato quel discorso folle, spiccano il volo, dissolvendo in uno sbattere d’ali anche quell’ultimo fantasma.
Il vecchio, rassegnato, si lascia andare contro la spalliera di ferro della panchina. 
E’ stanco, serra le labbra sui denti e calando un sipario sullo spettacolo travolgente del sorriso allegro, lascia che gli occhi si perdano a cercare qualcosa che forse non è qua, come ora pare chiaro perfino a lui.
Gli tendo la mano: mi chiamo Alessio, gli dico, e da bambino i compagni di squadra mi chiamavano “puncia”, in sardo, perché ero magrissimo, sottile come un chiodo. Ma tu puoi chiamarmi Buscapè, se vuoi, vecchio -.
Contraccambia uno sguardo che pare lucido, e un sorriso appena accennato, impercettibile.
Mi tende la mano nodosa come un ramo spoglio.
- Lo sapevo, bambino prodigio, siamo amici, noi, grandi amici. Io sono brasileiro, amico, brasileiro di Sardegna -. 
Il vecchio è crocefisso ad un rosario di undici nomi sgranati dal tempo, nomi che ho imparato da bambino e che ricordo ancora tutti, uno dietro l’altro, filastrocca memorizzata prima ogni altra: Albertosi Martiradonna Zignoli, Cera Niccolai Tomasini, Domenghini Nenè Gori, Greatti, Riva.
- Sono nato a Santos, Sao Paulo, Brasil -.
Mi dice il suo nome, e mi sorride.
- Mi chiamo Claudio Olintho de Carvalho, amico.
Nenè -.

Seduto sulla stessa panchina di allora, lo rivedo nelle fotografie. 
Ora che sono vecchio come lo era lui il giorno del nostro primo incontro:-mi chiamo Alessio, gli dico, e da bambino i compagni di squadra mi chiamavano “puncia”, in sardo, perché ero magrissimo, sottile come un chiodo. Ma tu puoi chiamarmi Buscapè, se vuoi, vecchio -.

Ora che ho più tempo per ricordare, anche se sarebbe meglio dimenticare, forse.  
Alla fine poi la rivoluzione c’è stata davvero, ma l’hanno fatta gli altri. Ci hanno schiacciato come moscerini.
Della città che è stata poche cose sono rimaste in piedi, dopo una battaglia durata una settimana. Tra le poche i ruderi di una piazza tonda sul fondo e stretta in cima come una goccia d’acqua, e questa panchina contorta.
Anch’io, come faceva lui, mi porto sempre appresso due buste azzurrine, di quelle che si usavano per trasportare la spesa a casa: solo che le mie sono piene di fotografie. Le ho raccolte un po’ dappertutto, tra quello che è restato. Sono come le briciole di pane che i vecchi di una volta davano in pasto ai piccioni. Queste briciole di passato nutrono me. Cerco di far trascorrere il tempo, riportandolo indietro. Riavvolgendo il nastro, spero che il film che mi distrae dalla realtà possa durare il più a lungo possibile.
Ce n’è una, in particolare, che ho trovato per caso, qualche anno fa, nella vecchia casa della mia famiglia. E’ un immagine di quasi ottant’anni fa. Il mio piccolo tesoro. 
Me la rigiro di nascosto tra le mani, questa antica stampa in bianco e nero, stando bene attento a non rovinarla, a non sgualcirla. 
Ritrae due uomini: alti, magri distinti, austeri. Si somigliano molto, potrebbero sembrare fratelli se non fosse che uno è molto anziano e di pelle bianca, l’altro è più giovane e scuro di carnagione. 
Le foto come questa sono andate quasi tutte distrutte. Sarebbe impossibile esporne una, e se me la trovassero addosso passerei dei guai seri. La “mescolanza”, come chiamano ora i legami, di qualsiasi tipo, tra un bianco e un nero, non è tollerata dal Nuovo Governo.
I due uomini posano per un fotografo improvvisato nel disordine di una sala elegante: tovaglie sporche, bicchieri rovesciati, rimasugli di cena e di festa. Il più anziano indossa una giacca chiara su pantaloni neri e un farfallino scuro serra il colletto di una camicia immacolata. Tiene le mani incrociate dietro la schiena. E’ impeccabile, nel mezzo del caos che lo circonda. I pochi capelli ai lati della testa calva sono bianchi e radi come i baffetti sottili e curati che incorniciano un sorriso misurato, composto, soddisfatto. Sornione. Il ragazzo poggia amichevolmente il braccio sulla spalla dell’uomo anziano. Il ragazzo, è lui. Che è stato bambino, ragazzo, vecchio, come tanti. Campione, come pochi. Che è stato, e poi basta. L’uomo anziano era invece il caposala di uno storico ristorante del centro città: - Vincenzo Innocente, per servirvi -. Nonno.
Sul retro c’è una data: 12 aprile 1970. Poi, appena più sotto, una scritta: La Rivoluzione.
Come ho fatto, quel giorno lontano quarant’anni, a non pensarci?: - Allora torniamocene al tuo ristorante, a quest’ora starà chiudendo, non lo vedi che è notte? Mi ricordo del ristorante. Andavamo sempre lì, a festeggiare. La rivoluzione! Te la ricordi tu la rivoluzione?.

Seduto sulla stessa panchina di allora, lo rivedo nelle fotografie. 
Ora che sono vecchio come lo era lui il giorno del nostro incontro.
Ora che ho più tempo per ricordare, anche se sarebbe meglio dimenticare, forse.  
Prima della Sconfitta si trovavano ancora dappertutto, quelle fotografie scattate nel 1970, quasi ottanta anni fa.  
Io le conosco, quelle immagini. Le ho imparate a memoria. Conosco ogni piega delle divise bianchissime, perfette, senza una sgualcitura, i volti tesi, eppure nel contempo sorridenti e scanzonati, le braccia conserte, gli occhi vivi. Questo è quello che tutti possono osservare. Ma c’è un particolare che conosco solo io. C’è un uomo, in mezzo agli altri, che guarda lontano, mentre tutti i suoi compagni sembrano sprofondati nel presente. Lui no, viene da un altro tempo.  
In tutte, immancabilmente, è il primo da sinistra, in piedi. Volto asciutto e braccia incrociate, strette sul petto. Elegante, perfino in quella posa statica. Magrissimo, scuro, austero. Tra tutti gli altri uomini in maglia bianca, è il più serio. Ma è lo sguardo, in realtà, che colpisce: ad una prima occhiata potrebbe sembrare triste, ma chiunque lo osservi con attenzione, invece, lo scoprirà meditabondo, concentrato su qualcosa che aleggia alle spalle dei fotografi schierati di fronte. Perso oltre il prato verde, il pubblico trepidante, le gradinate di cemento e legno e tubi innocenti. Perso in un altro luogo. In un altro tempo. 
Quando tutto era ancora possibile.
E’ stato il più grande, così mi raccontava mio nonno. Poi è stato un mio grande amico, e questo conta anche di più. L’unica cosa che conta, forse.
- Mi chiamo Claudio Olintho de Carvalho, amico
Nenè-.




giovedì 9 marzo 2017

E naturalmente te

- Dai! Davvero parti? E quando?
- Tra quattro mesi. Tra quattro mesi parto.
- Dai, che figo, mannaggia quanto ti invidio. E dove vai?
- Boh, in Africa.
- In Africa? Davvero? Ma è bellissimo! C’è un cielo, di notte. Non vorrai più tornare. Certo, sono molto poveri in Africa…e quei bambini? Poverini quei bambini. Soffrono molto. E cosa farai, un safari? Vai a fare un safari vero? 
- No, non faccio un safari, scalo un monte.
- Come scali un monte? Vai in Africa a scalare un monte? Nooo, sei troppo matto, tu. Che monte?
- Non è importante che monte.
- Cazzo, che figata. Sarà faticoso, eh?
- Sì, credo di sì. Ci vorranno dieci giorni per salire e tre per scendere. Sono 5850 metri.
- Oh mi raccomando. Voglio un reportage completo. Dove le posti le foto, su Facebook?Così le vedo.
- No. 
- Come no?
- Non ce l’ho Facebook.
- Daaaai, nel 2017 tu ancora non hai Facebook. Sei strano tu, eh! Instagram?
- No.
- Twitter?
- No
- Flickr?
- No.
- Snapchat?
- Nemmeno.
- Lo vuoi il mio numero di telefono? Così mi uozzappi.
- Eh?
- Me le mandi con uozzàp.
- No, non lo voglio il tuo numero di telefono.
- Cioè, tu te ne vai fin laggiù e non farai neppure una foto?
- No, infatti.
- Boh, non ti capisco. Sei troppo matto! E’ come non esserci andati allora, scusa eh. Che cavolo ci vai a fare?
- Cerco una persona.
- Davvero e chi?
- Non sono affari tuoi.
- E perché la cerchi lì?
- Perché quando non trovi più le persone dove sempre stavano ad aspettarti, allora ti metti in cammino e cominci a cercarle dove  sarebbero potute essere, se non se ne fossero andate. 
- Boh, non ho capito. Comunque, ci vorrà un sacco di roba per scalare una montagna. Quanta roba ti porti?
- Non porto tante cose, solo queste.
- Quali?
- Queste, ascolta: 



mercoledì 8 marzo 2017



La casa di Facciadicane, a Cannestorte

Sarà una caramella, che vi seppellirà.

Fu quando il mare cominciò a restituire ciò che così a lungo aveva custodito. 
Spesso erano solo frammenti, slegati dai lacci dei tendini e dei legamenti, carpi, metacarpi e altre ossicina, gettati alla rinfusa come dadi sulla spiaggia. A volte capitava sul bagnasciuga qualche dente, più raramente ossa intere. Dopo pochi giorni d’aria, si sbriciolavano sotto la luce bianca del sole e diventavano come sabbia, indistinguibili da gusci e conchiglie e resti di bestie marine di ogni sorta.
Non erano trascorsi neanche vent’anni dal tempo degli angeli senza ali, dei corpi che piovevano a grappolo, quando assieme alle ossa cominciarono a riaffiorare i ricordi. Accadde esattamente ciò che lui le aveva predetto: le cicatrici cominciarono a sanguinare.
Allora tutte le membra presero a dolerle di un dolore cupo, perchè le ferite sul corpo di Aurora erano tante. E profonde.
Quella mattina si trattenne in casa giusto il tempo di un caffellatte bollente. Zittì la radio che gracchiava il bollettino della nottata appena trascorsa, staccò la spina del nuovo televisore non appena le edizioni speciali cominciarono ad aggiornare la nazione che sul nuovo, freschissimo, rigurgito di rivolta.
Sedette sul divano. Prese tra le mani la busta verde che giaceva sul tavolino dinanzi a lei.
L’Esercito, nostalgico per definizione, al tempo del cyber mondo non era ancora riuscito a rinunciare alla carta spessa delle raccomandate urgenti, modello PRU, personale, riservata, urgentissima. Stato di massima allerta.
L’aveva ricevuta soltanto cinque giorni prima. La convocazione era prevista per le ore nove punto zero zero di quel mattino che ancora non voleva saperne di spalancare le finestre alla luce del giorno.
Aveva già stirato la divisa grigia, lucidato gli stivali, smontato e ingrassato le armi d’ordinanza.
Stava tutto di fronte a lei, oltre la porta della cabina armadio, ordinato sulle grucce di legno di rovere. In un istante avrebbe indossato l’equipaggiamento e tutto sarebbe ricominciato; tutto sarebbe tornato uguale.
Fissò per un secondo l’ingresso della stanza, la porta aperta come una bocca sdentata. 
Lasciò tutto dov’era.
Si alzò, volse le spalle a quella vita, e uscì di casa nell’aria fresca del primo mattino.
I ponti erano saltati per aria e per oltrepassare il punto in cui la laguna incontrava il mare utilizzò il vecchio ciu che durante quegli anni di pace terrificante aveva rimesso a posto. 
Per arrivare alla piccola spiaggia non ci volle molto, in realtà.
Sedette sulla riva.
I frangiflutti che partivano dal vecchio villaggio dei pescatori si allungavano come dita ossute e ritorte nel mare del golfo.
Nuove colonne di fumo salivano lente nel cielo limpido di quel novembre tiepido, che sembrava maggio.
Volse lo sguardo dall’altra parte.
Sui cubi di cemento armato il colore della pittura era un po’ sbiadito, ma i petali dei fiori si distinguevano ancora bene.
E le poesie c’erano ancora, come lui aveva detto, “neanche tutta questa merda è risucita a cancellarle”. 
Non dovette neppure leggere, per ricordare:
“Voglio sentire ancora il dondolio delle vecchie barche,
e le storie dei vecchi pescatori di Cannestorte…”
Dopo vent’anni, tutto ritornava a galla nella memoria come le ossa dal fondo del mare.
Infilò la mano destra nella tasca del giubbotto.
Estrasse un piccolo involucro.
Lo scartò.
E mentre gustava il sapore dolcissimo della caramella portò la cartina rossa davanti agli occhi. 
- E’ proprio bello il mondo guardato così, pensò-.



Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...