venerdì 30 novembre 2018

Controvento



Si chiamano Puncia, Maludrottu e Uribe.
Il primo è magro come un chiodo, la cassa toracica una gabbia di uccellini, cuore, polmoni e rabbia chiusi dietro sbarre di costole.
Il secondo è zoppo, una gamba buona, l’altra no, sacrificata all’altare del padre e al suo rito infame - dacci oggi la nostra pena quotidiana, versa il vino e spezza le ossa - una per ogni notte storta, per ogni cena sbagliata che è sempre penultima, mai l’ultima.
Il terzo ha i capelli corvini e crespi, è nero come il carbone e come un calciatore che non ha mai visto giocare, di cui sa solo gli occhi e i piedi, buoni entrambi come i suoi, dicono. 
Filano veloci verso il Castello in sella a tre biciclette nuove fiammanti che non gli appartenevano prima di oggi ed ora, da qualche minuto, invece sì. Qualcuno le direbbe rubate invece Puncia pensa alla teoria dei vasi comunicanti imparata sui banchi di scuola, qualche tempo prima, al pieno che sempre tracima nel vuoto. E gli sembra giusto così. Nessuno li insegue, nessuno li aspetta. Eppure spingono forte sui pedali cromati, gli occhi stretti, la faccia al vento, chini sui manubri come cavalieri sul collo di cavalli bottino di bardana. Le catene ronzano silenziose, le ruote scivolano sull’asfalto quasi senza attrito. I fantasmi arrancano, non tengono il passo, li aspetteranno poi, di notte, dietro le porte chiuse delle loro stanze; lo sanno, ma per ora corrono più forte: è presto, ancora, per avere paura. Tagliano veloci le vie eleganti, sprofondano nel gorgo di Biddanoa e puntano ai Giardini Pubblici. Pochi minuti di salita e di fiato grosso: dietro la Porta di Pietra, finalmente, casa.Lungo la strada, nella via dei giardini, una vetrata grande, la luce azzurra, un’insegna, comincia con la lettera B ma il nome è francese, non lo capiscono. Un cartello invece, è chiarissimo: “stasera polpette”, dice. Puncia inchioda. Maludrottu pure e per poco finisce dritto per terra, Uribe, dietro di lui, ride. Nascondono le bici dietro le macchine parcheggiate - e se ce le rubano? dice Uribe; lo guardano storto, Puncia finge un pugno, Maludrottu un calcio che quasi cade da solo. Ridono tutti e tre, ora.Sembra affollato, il locale, affollatissimo, al di là dei vetri appannati le sagome dei clienti si distinguono appena, fantasmi sospesi nella luce lattiginosa delle lampadine. La vetrina è una lanterna, li attrae come falene e allora muti, uno alla volta, si accostano.

Il primo è Puncia.
Col palmo della mano libera una piccola porzione di vetro dalla condensa. Butta uno sguardo all'interno e subito indietreggia di due, tre passi. Si volta, gli amici restituiscono uno sguardo interrogativo al suo sconcerto e allora lui si avvicina nuovamente alla vetrata. Con la mano spazza la brina che dopo pochi secondi si è già riformata costringendolo a ripetere l’operazione ogni volta che l’interno del locale scompare alla vista. E ogni volta, come se scorresse le immagini sullo schermo di un telefono cellulare, la scena a cui assiste cambia. Cambia, cambia sempre.

Al mercato di San Benedetto, da bambino, a imparare il nome dei pesci. La mano di babbo, i gomitoli di anguille, il brulichio dei granchi, i polpi in fuga. 


Una spiaggia deserta alle 6 di mattina, un canotto precario, le lenze in ordine, pronte alla pesca, l’acqua tiepida dell’alba, il sonno che pesa sugli occhi, il mare di Cannestorte, le risate di mamma, un sacco di anni fa.

Tu.
Tu?
Non è possibile. Soltanto ieri mi hai preso la mano, all’improvviso, senza dire nulla, te lo ricordi? Parlavamo con Marta, seduti al tavolo tondo e io nemmeno ho avuto il coraggio di voltarmi a guardarti; solo abbiamo continuato a tenerci le mani e carezzare la pelle liscia del dorso, piano, col pollice scampato alla stretta, il fiato morto in gola, in petto un trambusto che temevo e speravo potessi sentire. Era soltanto ieri eppure a guardarti ora sembrano passati trent’anni. Sei tu, Fede? E se sei tu perchè hai quarant’anni e ieri ne avevi 17, come me, e chi è questo tizio calvo che ora ti parla vicino, troppo vicino? Eppure questa donna come te inclina il capo mentre ascolta, la mano poggiata sotto il mento, e di te ha le dita sottili, lo stesso modo di stringere appena gli occhi quando si concentra per capire meglio, di te il verde profondo, gli stessi occhi di bosco. No, no, sei tu, ma come è possibile che siano passati trent’anni, da ieri sera, amore mio?
L’uomo che ti accompagna ride, lascivo, e tu no, non ridi, si sporge sul tavolo a parlarti vicino, troppo e allora ti scosti, allontani la mano che sfiora l’orlo della gonna a fiori, bevi un lungo sorso di vino e ti volti verso il vetro, una piega amara all’angolo della bocca, lo sguardo perso sulla condensa. Alla donna sembra di notare un movimento al di là del vetro, e allora si concentra, stringe le palpebre - lo vedi, vedi come fai? sei tu - ma non c’è nulla fuori, si dev’essere sbagliata, solo i fari di una macchina di passaggio, le risate di due innamorati, tre biciclette poggiate sul muro. Dove sei? pensa. Dove sei finito? Puncia quel pensiero non lo può sentire, e neppure può raggiungerla da questo in quell’altro tempo distante, però pensa: sono qui, amore mio, sono qui. Federica osserva una goccia correre lungo la vetrata. Non vuole piangere, allora si concentra e la guarda scivolare via finchè non scompare. Come una lacrima.

-Oh! Puncia oh, che c’è?
La voce di Maludrottu lo scuote. Si è messo paura a vederlo così, impietrito, l’ha chiamato, una, due, tre volte ma solo alla quarta Puncia si volta e ha nello sguardo uno smarrimento che mai gli aveva visto prima e questo lo spaventa ancora di più.

-La condanna senza appello all’irrimediabile-, dice. E siccome quello lo fissa senza capire aggiunge: - guarda tu, guarda, dice, indicando la vetrata.
Maludrottu si avvicina, lento, un po’ perchè zoppica ma soprattutto perchè ha paura e quando succede l’andatura si fa ancora più faticosa.

Ripete gli stessi gesti dell’amico, con la mano ritaglia una finestra di luce sul vetro appannato. Ogni volta, una scena diversa.

La luce di cucina, tenue. Mamma ha i capelli lisci e neri di quando era giovane e lui era un bambino piccolissimo. Ha il grembiule di cucina coi fiori, un maglione col collo alto, blu. Papà tuffa un dito nell’insalatiera, ruba un po’ dell’impasto dolce della torta che lei sta preparando. Mamma finge di arrabbiarsi, lo picchia piano col mestolo sul dorso della mano. Ridono, si danno un bacio.

La stessa cucina. Mamma piange. Papà la guarda fisso, schifato. Sul pavimento cocci di vetro, una sedia rotta, una chiazza grande di vino scuro. Sembra sangue.

Un uomo - papà? - seduto al tavolo del locale. La testa ciondola, una mano gioca col bicchiere vuoto. E’ solo, farfuglia. A tratti alza la voce, teste si voltano a guardarlo, altri fingono indifferenza. Il padrone del bar si avvicina per allontanarlo, ha i baffetti, un grembiule legato sul davanti come mamma, il sorriso buono. E’ gentile, gli chiede di allontanarsi. L’uomo si alza, rovescia la sedia, il tavolo, la bottiglia. Barcolla. Svanisce nella condensa come il mondo subacqueo agli occhi di un ubriaco.

Mamma per terra, sul pavimento del bagno, rannicchiata. Papà in piedi, sopra di lei, le urla: ti basta? Eh? Ti basta?

I capelli neri sparsi sul cuscino del letto, gli occhi sbarrati e vuoti, il corpo immobile. Mamma? Mamma? Una sedia in frantumi, una gamba di legno usata come clava, il telefono in mano: cosa credi di fare eh, bastardo? Cosa credi di fare? Il dolore acuto alla sua, di gamba, le sirene dell’ambulanza, le luci blu della polizia, mamma coperta da un telo, una ciocca ribelle della coda disfatta e una mano inerte sfuggite al lenzuolo, l’ultima cosa che vede.

Una casa famiglia, i servizi sociali, un lavoro di merda, la bottiglia come lui, peggio di lui. Seduto a quel tavolo non è papà, sono io. Io che barcollo e urlo, barcollo e vomito, barcollo e poi cado, non molto tempo dopo stasera.

I due amici non parlano, si guardano, ammutoliti.
Uribe dice: ma che vi prende a tutti e due eh? Che c’è dentro questo posto?
Nemmeno bisogna chiedergli di guardare che lui è già lì, la faccia contro il vetro, la mano che da destra a sinistra, con un gesto, ritaglia immagini.

Un campo alla periferia della città, la bicicletta nuova, senza le rotelle che lo aiutavano non cadere. Babbo alle spalle mi aiuta a pedalare, mi sostiene, mi spinge per una breve discesa e poi urla: sei solo Ale eh, sei solo. Mentre la sua voce si fa più lontana io pedalo, in equilibrio, sotto il cielo limpido di primavera.

Il primo allenamento, sopra un campo verdissimo di erba tagliata fresca. I bambini intorno, gli altoparlanti, la musica di Donatella Rettore, babbo in tribuna, sorride. Ci sono qua io, sembra dire.
 

Lo stadio, enorme, la gente, troppa, la luce dei riflettori, le urla, troppe, i giornalisti, i flash delle macchine fotografiche, troppe, le domande, le risposte, troppe, i soldi, troppi, le scommesse e ancora i soldi, troppi, una stanza d’albergo, la voce di babbo, lontana, lontanissima - sei solo, Ale eh, sei solo - sì ma non così, ba’, non così, la pistola sul comodino, i proiettili, troppi, ne basta uno, uno soltanto. Sono solo, bà’, solo.

Indietreggia anche lui, fin dove i suoi amici lo aspettano spalle contro il muro, accanto alle biciclette rubate.
-Che hai visto?
-Nulla e voi?

-Nulla, rispondono. Quindi tacciono.

- Domani la bacio, pensa Puncia.
- Domani lo uccido, pensa Maludrottu.
- Domani non gioco, pensa Uribe.


Si è alzato un vento fortissimo, gelido. Le persiane sbattono nella bufera, due uomini faticano a camminare stretti nei loro cappotti, un vaso di terracotta precipita da un balcone, i cartelli stradali ondeggiano scossi dal maestrale.
- E ora come rientriamo a casa?
- Controvento, dice Puncia. Tanto siamo abituati no?
-Hai ragione dice Maludrottu, controvento; dobbiamo solo pedalare più forte.
-“Controvento, pedala più forte”. Questa ce la facciamo tatuare eh, promesso? 

Montano sulle biciclette. Si sollevano su pedali, e silenziosi, così come sono arrivati, spariscono come fantasmi nella notte.

Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...