giovedì 6 dicembre 2018

La fine del giorno

Chiude le porte della filiale. Imposta gli allarmi, si incanta sulla luce rossa e intermittente che segnala il blocco degli accessi. La scritta “on” lampeggia nella penombra, la ipnotizza. Le vetrate anti-sfondamento la isolano dal frastuono dell’ora di punta e nel silenzio degli uffici deserti da ore rimbombano mozziconi di frasi pronunciate fino a poco prima: inadeguata, polso della situazione, ferie inutili, sola come un cane, certo se ti avvicini un po’ anzichè star lì, incapace. Mentre il Capomercato le vomitava addosso frasi rabbiose, si era concentrata senza replicare sulla vista che poteva godere da dietro la scrivania: il sole splendeva ancora nella luce finale della serata estiva e in lontananza si stagliavano le colline azzurre dei Sette Fratelli; dietro il profilo delle creste montuose, nette contro il cielo limpido, quasi sentiva soffiare il respiro rassicurante del mare. Quando quel pitbull in doppiopetto finalmente se n’era andato lei era rimasta immobile per ore, inchiodata alla croce di quella poltrona ergonomica da parole acuminate come chiodi.

Lo squillo improvviso di un telefono - ma a chi può venire in mente di chiamare una banca a quest’ora? – la ridestano da quel torpore e la riportano al presente, così esce per strada. Si avvia con passi lenti lungo il marciapiede, le mani gelide sprofondate nelle tasche del cappotto. Nessuna destinazione, nessuna ragione in quell’andare diversa dal semplice camminare. Ha fame ma la prospettiva di una cena muta è una sentenza inappellabile al digiuno. Il supermercato ha chiuso da un pezzo. Non cenerà. Gli occhi fissi al suolo restringono il campo visivo sulla punta delle scarpe, costringono le ombre dei pochi passanti ai margini della visuale, ma la coda dell’occhio registra comunque i tavoli deserti dei locali, il candore dei piatti vuoti, le pieghe sulle tovaglie consunte, le camicie linde dei camerieri in attesa vana di clienti che nell’ora tarda non arriveranno mai e fotografa sui loro volti la delusione di un appuntamento tradito. Osserva il disarmo di quella periferia impiegatizia, un avamposto di città sorvegliato dai bidoni della raccolta differenziata schierati di sentinella di fronte agli uffici abbandonati. Le vie deserte paiono i binari di una stazione dismessa e si sorprende a immaginare un uomo in attesa di un treno che non arriverà mai: se lo figura invecchiare all’ombra di una pensilina, il grigiore della polvere adagiata sui tabelloni spenti, la paralisi degli orologi inerti, il silenzio di nessun annuncio, nell’attesa vana di una assenza irrimediabile.

Lei il silenzio non lo sopporta, allora canticchia una canzone che tenga compagnia al passo, il suono dei tacchi sul selciato a tenere il tempo. Sceglie Suzanne, senza sapere perchè. - Vorresti essere lei? - Chiede a sè stessa. - ? Ti sarebbe piaciuto vivere al suo posto? - La sua voce è un sussurro che il vento freddo strappa a brandelli e porta via senza l’eco di nessuna risposta, una lettera mai consegnata a chi quella canzone le aveva insegnato...e Suzanne ti dà la mano, ti accompagna lungo il fiume, porta addosso stracci e piume, presi in qualche dormitorio, il sole scende come miele, su di lei donna del porto...
C’è un cinese aperto, entra, sceglie un albero di natale preconfezionato, alto 30 cm, ha già le luci, minuscole come gli addobbi, un jingle bell che suona scordato, le batterie che dureranno qualche ora, al massimo. Le strappa un sorriso per quanto è triste una musica che suona metallica sotto la luce fredda dei neon, allora lo compra.

Nota una scimmietta di pelouche, nella pancia nasconde una borsa d'acqua calda ad alimentazione elettrica, in pochi istanti diventa bollente. Probabilmente esploderà, pensa, ma anche una volta mi parlasti del freddo che senti a casa, seduto sul divano, la sera.
- E’ per te, ti piace? chiede.
Un orientale stretto in una giacca a quadri troppo larga solleva la testa dallo schermo di un telefonino, capisce che la domanda non è rivolta a lui come a nessun altro, la riabbassa sul registratore di cassa.
Paga ed è già in strada, sul pullman che la riporta a casa. Le luci della città scorrono sui vetri sporchi come la pellicola bruciata di un vecchio film muto. La fronte contro il vetro ghiacciato del finestrino, sulle ginocchia una sporta di sottilissima plastica azzurra, stretta contro il petto. Un senzatetto carico di buste borbotta, un ragazzino ascolta musica dalle cuffie con lo sguardo perso nel vuoto, una vecchia tenta di resistere al sonno, la testa ciondoloni.

Di fronte al suo appartamento la accoglie l’insegna gialla della pizzeria, resiste alla tentazione di una Quattro stagioni, apre il cancelletto, oltrepassa il piccolo giardino, infila la chiave nella toppa, apre. Senza accendere la luce si chiude la porta alle spalle, il rumore dell’uscio nel buio è il tonfo di un sasso sull’acqua di uno stagno, ne increspa appena, per un istante, la superficie. Sussurra – ciao, sono tornata - al silenzio liquido che la avvolge; parla per non affondare, aggrappata alla zattera di un suono qualsiasi.

In camera da letto apre un’anta dell’armadio, poggia la scimmietta in cima al mucchio di tutti gli altri regali mai consegnati, sfila le scarpe, si stende sul letto, così com’è, vestita.

- Buona notte, si dice.

Punta la radio sveglia alle 6:00 del mattino. I cristalli liquidi rischiarano l’oscurità della stanza di una luce tenue e soffusa, rossastra. Le 21.27 fluttuano nel buio come le luci di una astronave.  

Per un po’ le guarda galleggiare, poi chiude gli occhi.

 






venerdì 30 novembre 2018

Controvento



Si chiamano Puncia, Maludrottu e Uribe.
Il primo è magro come un chiodo, la cassa toracica una gabbia di uccellini, cuore, polmoni e rabbia chiusi dietro sbarre di costole.
Il secondo è zoppo, una gamba buona, l’altra no, sacrificata all’altare del padre e al suo rito infame - dacci oggi la nostra pena quotidiana, versa il vino e spezza le ossa - una per ogni notte storta, per ogni cena sbagliata che è sempre penultima, mai l’ultima.
Il terzo ha i capelli corvini e crespi, è nero come il carbone e come un calciatore che non ha mai visto giocare, di cui sa solo gli occhi e i piedi, buoni entrambi come i suoi, dicono. 
Filano veloci verso il Castello in sella a tre biciclette nuove fiammanti che non gli appartenevano prima di oggi ed ora, da qualche minuto, invece sì. Qualcuno le direbbe rubate invece Puncia pensa alla teoria dei vasi comunicanti imparata sui banchi di scuola, qualche tempo prima, al pieno che sempre tracima nel vuoto. E gli sembra giusto così. Nessuno li insegue, nessuno li aspetta. Eppure spingono forte sui pedali cromati, gli occhi stretti, la faccia al vento, chini sui manubri come cavalieri sul collo di cavalli bottino di bardana. Le catene ronzano silenziose, le ruote scivolano sull’asfalto quasi senza attrito. I fantasmi arrancano, non tengono il passo, li aspetteranno poi, di notte, dietro le porte chiuse delle loro stanze; lo sanno, ma per ora corrono più forte: è presto, ancora, per avere paura. Tagliano veloci le vie eleganti, sprofondano nel gorgo di Biddanoa e puntano ai Giardini Pubblici. Pochi minuti di salita e di fiato grosso: dietro la Porta di Pietra, finalmente, casa.Lungo la strada, nella via dei giardini, una vetrata grande, la luce azzurra, un’insegna, comincia con la lettera B ma il nome è francese, non lo capiscono. Un cartello invece, è chiarissimo: “stasera polpette”, dice. Puncia inchioda. Maludrottu pure e per poco finisce dritto per terra, Uribe, dietro di lui, ride. Nascondono le bici dietro le macchine parcheggiate - e se ce le rubano? dice Uribe; lo guardano storto, Puncia finge un pugno, Maludrottu un calcio che quasi cade da solo. Ridono tutti e tre, ora.Sembra affollato, il locale, affollatissimo, al di là dei vetri appannati le sagome dei clienti si distinguono appena, fantasmi sospesi nella luce lattiginosa delle lampadine. La vetrina è una lanterna, li attrae come falene e allora muti, uno alla volta, si accostano.

Il primo è Puncia.
Col palmo della mano libera una piccola porzione di vetro dalla condensa. Butta uno sguardo all'interno e subito indietreggia di due, tre passi. Si volta, gli amici restituiscono uno sguardo interrogativo al suo sconcerto e allora lui si avvicina nuovamente alla vetrata. Con la mano spazza la brina che dopo pochi secondi si è già riformata costringendolo a ripetere l’operazione ogni volta che l’interno del locale scompare alla vista. E ogni volta, come se scorresse le immagini sullo schermo di un telefono cellulare, la scena a cui assiste cambia. Cambia, cambia sempre.

Al mercato di San Benedetto, da bambino, a imparare il nome dei pesci. La mano di babbo, i gomitoli di anguille, il brulichio dei granchi, i polpi in fuga. 


Una spiaggia deserta alle 6 di mattina, un canotto precario, le lenze in ordine, pronte alla pesca, l’acqua tiepida dell’alba, il sonno che pesa sugli occhi, il mare di Cannestorte, le risate di mamma, un sacco di anni fa.

Tu.
Tu?
Non è possibile. Soltanto ieri mi hai preso la mano, all’improvviso, senza dire nulla, te lo ricordi? Parlavamo con Marta, seduti al tavolo tondo e io nemmeno ho avuto il coraggio di voltarmi a guardarti; solo abbiamo continuato a tenerci le mani e carezzare la pelle liscia del dorso, piano, col pollice scampato alla stretta, il fiato morto in gola, in petto un trambusto che temevo e speravo potessi sentire. Era soltanto ieri eppure a guardarti ora sembrano passati trent’anni. Sei tu, Fede? E se sei tu perchè hai quarant’anni e ieri ne avevi 17, come me, e chi è questo tizio calvo che ora ti parla vicino, troppo vicino? Eppure questa donna come te inclina il capo mentre ascolta, la mano poggiata sotto il mento, e di te ha le dita sottili, lo stesso modo di stringere appena gli occhi quando si concentra per capire meglio, di te il verde profondo, gli stessi occhi di bosco. No, no, sei tu, ma come è possibile che siano passati trent’anni, da ieri sera, amore mio?
L’uomo che ti accompagna ride, lascivo, e tu no, non ridi, si sporge sul tavolo a parlarti vicino, troppo e allora ti scosti, allontani la mano che sfiora l’orlo della gonna a fiori, bevi un lungo sorso di vino e ti volti verso il vetro, una piega amara all’angolo della bocca, lo sguardo perso sulla condensa. Alla donna sembra di notare un movimento al di là del vetro, e allora si concentra, stringe le palpebre - lo vedi, vedi come fai? sei tu - ma non c’è nulla fuori, si dev’essere sbagliata, solo i fari di una macchina di passaggio, le risate di due innamorati, tre biciclette poggiate sul muro. Dove sei? pensa. Dove sei finito? Puncia quel pensiero non lo può sentire, e neppure può raggiungerla da questo in quell’altro tempo distante, però pensa: sono qui, amore mio, sono qui. Federica osserva una goccia correre lungo la vetrata. Non vuole piangere, allora si concentra e la guarda scivolare via finchè non scompare. Come una lacrima.

-Oh! Puncia oh, che c’è?
La voce di Maludrottu lo scuote. Si è messo paura a vederlo così, impietrito, l’ha chiamato, una, due, tre volte ma solo alla quarta Puncia si volta e ha nello sguardo uno smarrimento che mai gli aveva visto prima e questo lo spaventa ancora di più.

-La condanna senza appello all’irrimediabile-, dice. E siccome quello lo fissa senza capire aggiunge: - guarda tu, guarda, dice, indicando la vetrata.
Maludrottu si avvicina, lento, un po’ perchè zoppica ma soprattutto perchè ha paura e quando succede l’andatura si fa ancora più faticosa.

Ripete gli stessi gesti dell’amico, con la mano ritaglia una finestra di luce sul vetro appannato. Ogni volta, una scena diversa.

La luce di cucina, tenue. Mamma ha i capelli lisci e neri di quando era giovane e lui era un bambino piccolissimo. Ha il grembiule di cucina coi fiori, un maglione col collo alto, blu. Papà tuffa un dito nell’insalatiera, ruba un po’ dell’impasto dolce della torta che lei sta preparando. Mamma finge di arrabbiarsi, lo picchia piano col mestolo sul dorso della mano. Ridono, si danno un bacio.

La stessa cucina. Mamma piange. Papà la guarda fisso, schifato. Sul pavimento cocci di vetro, una sedia rotta, una chiazza grande di vino scuro. Sembra sangue.

Un uomo - papà? - seduto al tavolo del locale. La testa ciondola, una mano gioca col bicchiere vuoto. E’ solo, farfuglia. A tratti alza la voce, teste si voltano a guardarlo, altri fingono indifferenza. Il padrone del bar si avvicina per allontanarlo, ha i baffetti, un grembiule legato sul davanti come mamma, il sorriso buono. E’ gentile, gli chiede di allontanarsi. L’uomo si alza, rovescia la sedia, il tavolo, la bottiglia. Barcolla. Svanisce nella condensa come il mondo subacqueo agli occhi di un ubriaco.

Mamma per terra, sul pavimento del bagno, rannicchiata. Papà in piedi, sopra di lei, le urla: ti basta? Eh? Ti basta?

I capelli neri sparsi sul cuscino del letto, gli occhi sbarrati e vuoti, il corpo immobile. Mamma? Mamma? Una sedia in frantumi, una gamba di legno usata come clava, il telefono in mano: cosa credi di fare eh, bastardo? Cosa credi di fare? Il dolore acuto alla sua, di gamba, le sirene dell’ambulanza, le luci blu della polizia, mamma coperta da un telo, una ciocca ribelle della coda disfatta e una mano inerte sfuggite al lenzuolo, l’ultima cosa che vede.

Una casa famiglia, i servizi sociali, un lavoro di merda, la bottiglia come lui, peggio di lui. Seduto a quel tavolo non è papà, sono io. Io che barcollo e urlo, barcollo e vomito, barcollo e poi cado, non molto tempo dopo stasera.

I due amici non parlano, si guardano, ammutoliti.
Uribe dice: ma che vi prende a tutti e due eh? Che c’è dentro questo posto?
Nemmeno bisogna chiedergli di guardare che lui è già lì, la faccia contro il vetro, la mano che da destra a sinistra, con un gesto, ritaglia immagini.

Un campo alla periferia della città, la bicicletta nuova, senza le rotelle che lo aiutavano non cadere. Babbo alle spalle mi aiuta a pedalare, mi sostiene, mi spinge per una breve discesa e poi urla: sei solo Ale eh, sei solo. Mentre la sua voce si fa più lontana io pedalo, in equilibrio, sotto il cielo limpido di primavera.

Il primo allenamento, sopra un campo verdissimo di erba tagliata fresca. I bambini intorno, gli altoparlanti, la musica di Donatella Rettore, babbo in tribuna, sorride. Ci sono qua io, sembra dire.
 

Lo stadio, enorme, la gente, troppa, la luce dei riflettori, le urla, troppe, i giornalisti, i flash delle macchine fotografiche, troppe, le domande, le risposte, troppe, i soldi, troppi, le scommesse e ancora i soldi, troppi, una stanza d’albergo, la voce di babbo, lontana, lontanissima - sei solo, Ale eh, sei solo - sì ma non così, ba’, non così, la pistola sul comodino, i proiettili, troppi, ne basta uno, uno soltanto. Sono solo, bà’, solo.

Indietreggia anche lui, fin dove i suoi amici lo aspettano spalle contro il muro, accanto alle biciclette rubate.
-Che hai visto?
-Nulla e voi?

-Nulla, rispondono. Quindi tacciono.

- Domani la bacio, pensa Puncia.
- Domani lo uccido, pensa Maludrottu.
- Domani non gioco, pensa Uribe.


Si è alzato un vento fortissimo, gelido. Le persiane sbattono nella bufera, due uomini faticano a camminare stretti nei loro cappotti, un vaso di terracotta precipita da un balcone, i cartelli stradali ondeggiano scossi dal maestrale.
- E ora come rientriamo a casa?
- Controvento, dice Puncia. Tanto siamo abituati no?
-Hai ragione dice Maludrottu, controvento; dobbiamo solo pedalare più forte.
-“Controvento, pedala più forte”. Questa ce la facciamo tatuare eh, promesso? 

Montano sulle biciclette. Si sollevano su pedali, e silenziosi, così come sono arrivati, spariscono come fantasmi nella notte.

lunedì 15 ottobre 2018

Non c'è posto


Accosta la barca al vecchio pontile. Si attarda sulle cime d’ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con molti più nodi di quanti ne sarebbero necessari. Ha bisogno di tempo. Deve, necessariamente, prendere tempo. Sfila i remi dagli scalmi e li ripone con calma lungo le fiancate, uno per parte. Riordina le reti, poi le lenze da palamito. Impila le nasse una sull’altra. Gratta via le squame incollate sul bordo di dritta, indugiando con l’unghia sul legno cotto dal sole. Esegue quei gesti meticolosi con l'intento di rinviare il più possibile il momento in cui sarà costretto a sollevare lo sguardo, ben sapendo che invece compiuti così, uno dopo l'altro, non faranno altro che scandire il conto alla rovescia che lo sospingerà inesorabilmente incontro all’ineluttabile. Difatti, terminato di rassettare lo scafo, null’altro gli rimane da fare che alzare il capo verso chi lo attende sui legni dell’approdo immobile come un faro sulla scogliera e, arreso, dire soltanto: Anna; si trattiene giusto un attimo prima di salutarla con il nomignolo che usavano da ragazzini, quando si davano appuntamento in quello stesso punto del fiume.
Anna, di rimando, usa una parola soltanto; perché tanto di tutto il resto non può parlare, compreso il fatto di non trovarlo cambiato quasi per nulla nonostante siano passati settant’anni dall’ultima volta, perché ci sono nomi che non si possono più evocare, sorrisi che non si possono spendere, gesti che paiono affondati nella melma come le canne lungo queste sponde. Ma lui è sempre uguale. Questo vorrebbe dirgli, invece spende una parola, una soltanto al posto di mille: ciao, dice.
E nell'intonazione di quel saluto, nell'intenzione, nel modo che ha di inclinare il capo per osservarlo meglio illuminato dalla luce ultima del giorno, ci mette tutto quello che vorrebbe dire, senza riuscirci.

Il suono di quella voce scuote il vecchio, come quando uno strattone improvviso della lenza, per mare, lo strappa alla deriva dei pensieri o al sonnecchiare placido cullato dai raggi del primo sole, appena dopo l’alba. Non avendo più difese da opporle azzarda un’occhiata promettendo a sè stesso una fugacità che però non riesce a mantenere; così si attarda su quel viso per un tempo più lungo di quello che avrebbe voluto concedersi, e si sorprende a lottare per distogliere lo sguardo che invece non vuole proprio saperne di venire via impigliato com'è da qualche, anche se dove non saprebbe dire, in uno zigomo, su una ciocca di capelli, in un sopracciglio, ma lotta, il vecchio e alla fine ci riesce a liberarlo e a rivolgerlo subito altrove, giù in basso, il guizzo di un pesce che si dibatte, sfugge  la rete e lesto si rifugia tra le pietre del fondo. Lo assale improvvisa la certezza che nulla e nessuno - non loro due almeno - si sia mai mosso dalla sponda paludosa di quell'ansa di fiume, che per qualche strano fenomeno il passato e il presente, lo spazio e il tempo combacino e coincidano esattamente, come se anni e chilometri si fossero dati convegno nello stesso luogo nel medesimo istante. Sei sempre la stessa di settant'anni fa, non è cambiato nulla, pensa. Lo fa in silenzio, perché trema e sa che la voce lo tradirebbe. Non vuole che lei se ne accorga.
Trema, pensa lei, ha paura che me ne accorga.
- Perché sei solo, Ale? Mi hai sempre detto che non ci si va, da soli, per mare. E’ pericoloso, soli.

Al vecchio torna in mente quella volta in cui, mentre cercavano un posto adatto per pescare, Anna aveva cominciato a cantare, all’improvviso. Quella voce lo aveva commosso fino al pianto e aveva dovuto dare la colpa di quelle lacrime al vento e al sale perché si vergognava, di piangere di bellezza. Ti dicevo che non si può andare soli per portarti con me. Pensa che sarebbe stata questa la risposta giusta da darle. Invece risponde soltanto: - non c’è posto per due persone, su questa vecchia barca. Per questo vado solo. Non c’è più stato posto. Avrebbe voluto aggiungere: dopo di te; ma la voce si incaglia sul fondo roccioso della gola e non c’è verso di strappare quelle parole al fondale scuro in cui sono sprofondate. Recide con una lama di silenzio la cima di fiato che avrebbe potuto riportarle a galla e le abbandona all’abisso, come un’ancora non recuperabile.
Anna gli tende la mano, lo aiuta a montare sul molo.
Nemmeno le tue mani sono cambiate, amore mio, pensano, muti, nello stesso istante.
Si guardano un momento, si dicono soltanto ciao.
Non si vedranno più.

domenica 14 ottobre 2018

Facciadicane e Carnera

Facciadicane lo chiamavano così perché aveva un naso largo schiacciato in mezzo a due guance grassocce, da bulldog, e quando si arrabbiava dal petto gli saliva un respiro roco, lento e profondo come il ringhio di una bestia cattiva. A parte Cuccumeu e Radiolina infatti, tutti gli altri bambini, a scuola, giravano al largo. Lui non si crucciava anzi, portava quel soprannome come fosse un vanto, un mantello che lo nascondeva alla cattiveria dei compagni come il Grande Promontorio proteggeva le barche dei pescatori nelle notti di Vento Lupo.
Facciadicane ce l'aveva col mondo, ma ringhiava e basta; mordere non gli piaceva affatto.
Le cose andarono in questo modo fino ad un mattino di sole, silenzio e vento: quel giorno, Facciadicane conobbe Carnèra. A dire il vero nessuno ancora la chiamava così, perché era in là da venire il giorno in cui avrebbe steso Tommasino Su Burdu della 5b con il più fulmineo gancio destro che la storia del piccolo villaggio di Cannestorte ricordi. Nessuno conosceva neppure quello vero, di nome, perché era arrivata al paese da pochi giorni, ad anno scolastico appena concluso, forestiera. Nessuno avrebbe potuto dirla figlia di questo, nipote di quella, sorella di quell'altro; mancava di riferimenti, di ascendenze e discendenze, dei  punti cardinali dell’esistenza, insomma. Questo pensò esattamente Facciadicane, perso com’era in quella tempesta improvvisa e sconosciuta della quale era incapace di definire i contorni: “devi sapere da dove viene il vento, per dargli un nome” diceva il nonno. Lui il nome di quel vento che turbinava a così poca distanza, non lo conosceva ancora: all’inizio di questa storia dunque, per Facciadicane, Annina era soltanto un’ombra scura in controluce, seduta sopra una panchina. E lui, vedendo quella figurina scarna, per la prima volta in vita sua mostrò i denti al mondo come ancora non sapeva di poter fare: cioè sorrise. Il primosorriso di Facciadicane nella clessidra di Cannestorte, un luogo che dispensava accadimenti con una lentezza esasperante, un granello per volta. Cannestorte era un paese di colori e di profumi forti, di terra fine e leggera che ricopriva ogni cosa, di vento umido denso di salsedine, di silenzi pomeridiani che scandivano pomeriggi infiniti. Ma era anche un paese di suoni, un luogo in cui la vita scorreva rumorosa fischiando forte come il vento faceva tra le canne: l’aria vibrava degli strilli acuti delle fruttivendole e del richiamo dei pescatori, l’ombra delle vie strette risuonava del vociare delle comari sedute sugli scanni, gli uomini si affrontavano in sfide all’ultimo Campari al bar di Bottiglione, le ragazzine saltavano come cavallette sopra i numeri del Pincaro tracciati sull’asfalto bollente strillando come rondini a primavera mentre i maschietti, ipnotizzati da quello sfarfallio di sottane che era l’unico elemento interessante del gioco, ammutoliti le stavano a guardare. Il giorno in cui quei due si incontrarono invece, contrariamente a quanto accadeva di solito, tra le casupole color di terra regnava un silenzio assoluto: il fiume si trascinava lentissimo verso la foce, le cicale tacevano, i pesci sonnecchiavano all’ombra dei giacinti d’acqua, le strade erano vuote. Sfidando le leggi del mondo, di quel mondo, Facciadicane e Carnera avevano violato platealmente il coprifuoco imposto sul paese, e a maggior ragione sulla piazza grande, che a quell’ora sarebbe dovuta restare deserta e muta. Il 5 di giugno dell'anno 1978, giorno delle prime comunioni, né l’uno né l’altra si trovavano dove avrebbero dovuto stare: tra i banchi della chiesa. Sedevano invece, come già detto, su due panchine dirimpetto: di sottecchi si fissavano. Lui notò i capelli tagliati corti da maschio, il collo sottile, i riccioli sulla fronte e dietro l’orecchio, un neo, piccolo, sulla guancia destra. Lei le braccia abbronzate, le cicatrici vecchie, bianche, e quelle più recenti, scure come il vino secco sul fondo dei bicchieri. Carnèra si alzò dalla panchina e con pochi passi risoluti azzerò la distanza che li separava. Si fermò in piedi di fronte a lui, i pugni piccoli poggiati sui fianchi, il vestito viola lungo fin quasi terra, a sfiorare i piedi scalzi.  
- Perché non sei in Chiesa?, chiese.
- E a te cosa te ne importa?
- Me ne importa, sennò non te lo avrei chiesto, deficiente.
Facciadicane ci pensò su, e gli sembrò un motivo sufficiente, quindi rispose:
- L’incenso: mi fa venire la nausea. L’odore della lacca delle mie zie. Uguale. Il Crocefisso, quel Cristo enorme appeso sopra la testa: ho paura che cada e mi schiacci. E tu?
- La tonaca di Don Pietro. Striscia per terra e raccoglie tutto lo sporco che c’è. Fa schifo. A te cosa piace?
- L’odore del fieno, disse Facciadicane. La ricotta tiepida appena fatta. Il miele. Il mosto d’uva. Correre velocissimo in discesa con la bicicletta fino alla collinetta di terra che c'è alla spiaggia delle alghe nere e poi saltare giù. E a te?
- A me le coccinelle aggrappate agli steli d'erba secca. Le macchie rosse dei papaveri in mezzo al grano giallo. Le scritte sui muri. Uccidere i gatti.
- Ci vieni a pescare le anguille con me, domani? Si va alla fine della serata. Tanto la scuola è finita. La mia barchetta la riconosci subito, è viola e blu, si chiama Maledetta Primavera. Hai mai pescato le anguille al fiume?
Lei disse solo: no. Un no secco, deciso, che voleva dire: va bene, andiamo e a Facciadicane piacque molto, quella assoluta, totale, risolutezza.
Carnera teneva la gonna raccolta sulle gambe, per il caldo. Lui notò le sbucciature sulle ginocchia, identiche alle sue. La riconobbe, allora, seppur senza conoscerla ancora, ma non disse nulla.
- Come ti sei fatto quel taglio? gli chiese.
- Barabba, il gatto della vicina: ho cercato di strangolarlo e mi ha morso. Lo guardò, e anche lei lo riconobbe seppur senza conoscerlo ancora, ma preferì tacere e non dire nulla.
- Allora? Ci vediamo domani?
-Va bene, a domani.

Così, dicono che sia andata; o almeno, così raccontano Radiolina e Cuccumeu ai quali Facciadicane spifferò tutto la sera stessa. Ma chi può dire quale sia, davvero, la verità? Quel che è certo è che da quel giorno Facciadicane e Carnera fecero coppia fissa. Li vedevano uscire di casa al mattino ed entrare nella chiesetta di fronte al molo: ogni volta, prima di andare per mare accendevano due candele e ci appiccicavano sopra un bigliettino. Ciascuno di quei foglietti non conteneva preghiere ma frasi di cui solo loro conosceva il significato: potevi leggere: “ieri mi ha fatto ridere”, oppure “sei un cretino” e appena più sotto “non si rubano i fichi a zia Doloretta ma grazie di avermene regalato uno, era buonissimo”, oppure ancora “per i fiori della primavera”, “per il cielo d’estate”, “per le nostre mani, che sempre restino così”, oppure “per quello che ti ho detto guardando la schiuma sugli scogli”. Consacravano quello che si dicevano alla luce delle candele, loro che non credevano a nulla se non alle parole che si scambiavano e pregavano che fossero eterne come il dio muto di cui così tanto, in quel luogo, si parlava. Dopo qualche minuto uscivano, salivano su Maledetta Primavera e lentamente, a remi, risalivano il fiume.

Una sera non rientrarono. Li aspettammo fino all’ora del sole rosso, poi uscimmo per mare, nonostante il buio. Il giorno dopo attraversammo il golfo fino all’Isola del Vento Cattivo: trovammo soltanto un pezzo di fasciame con scritto sopra Prim. Il resto se l’era mangiato il mare o l’avevano rosicchiato gli scogli, ma quel legno sbrindellato era quel che restava della barchetta di Facciadicane, poco, ma sicuro. Nessuno li ha più visti, quei due. Alcuni raccontano di sentirli ridere, a volte, nascosti dal fitto delle canne lungo l’argine del fiume; altri sostengono che siano loro la ragione di un volo improvviso di cormorani o del guizzare precipitoso dei muggini sotto la superficie d’acqua immobile della laguna. In verità nessuno ne sa nulla, credo.
L’unica cosa che sappiamo per certo, a Cannestorte, è che ogni mattina, all’alba, quando spalanca le porte della chiesetta sul molo, a Don Pietro manca il fiato: immancabilmente, la fiammella tremolante di due candele  illumina il buio denso, e triste, della navata.

giovedì 3 maggio 2018

Storia di tre biciclette e del mondo di prima




Ferragliosa nel Mondo di Prima
Il primo a vederla, semisepolta nella battigia quasi fosse lo scheletro di una balena, fu Puncia. Chiamò gli altri e insieme si radunarono attorno a quella carcassa arrugginita, rosicchiata dal mare; neri com’erano di sole sulla pelle vestita di niente parevano moscerini attratti da un frutto abbandonato a marcire. In pochi minuti la liberarono completamente dalla sabbia. La guardarono in silenzio, incapaci di dargli un nome, finchè Pilu non disse soltanto: andiamo. Nessuno ebbe bisogno di chiedere dove.
Il Vecchio li stava aspettando. La notte prima aveva sognato Occhidibosco, vecchia come non aveva fatto in tempo a diventare: lei lo aveva guardato dall'abisso dei suoi occhi senza età e gli aveva detto soltanto: «vedrai, domani, i bambini, vedrai, amore mio...», lasciando la frase a metà come era solita fare per l'ebrezza delle cose importanti da dire. Così non fu colto di sorpresa dal vociare festoso che annunciò l'arrivo dei ragazzini prima ancora che fossero visibili agli occhi, come accade con le grida di rondine e la primavera. Si finse occupato, volgendogli le spalle fin quando non furono vicini un passo. Udì il suono metallico di un oggetto scaricato sulle pietre. A quel punto si voltò e lanciò uno sguardo al garbuglio di ferri ritorti che era stato condotto al suo cospetto, distogliendolo subito per paura che ci restasse impigliato come le reti da pesca sul fondo roccioso di Perdamala. In risposta alla domanda muta che veniva dalla masnada vociante sentenziò: «bicicletta». Nient’altro.
Al suono di quella parola sconosciuta, i ragazzini, d’improvviso, tacquero. Era quello che aspettava. Trasse un respiro profondo e cominciò: «Ferragliosa la chiamavano così perché era nera di ruggine e faceva il rumore di una catena di nave trascinata sugli scogli. Controvento perché la prima volta che venne usata - la mattina di un 25 dicembre gelido di schiuma di mare - soffiava un maestrale così impetuoso da spazzare via le case di giunco, ma non loro tre, chini a sbuffare sui manubri per la fatica di pedalare faccia alla bufera. Raggidisole invece, aveva le ruote cromate e sparava riflessi accecanti come luci di giostra perfino sotto il sole spietato di luglio. Usavano le biciclette per venire qui, alla Casa del Drago».
Quando il Vecchio raccontava le storie del Mondo di Prima, i bambini trattenevano il fiato.
Lo temevano, perché si diceva mangiasse serpenti vivi e scarafaggi ma non c’era nessuno, su quella striscia di terra scampata al Disastro, che conoscesse più storie di lui, sul Tempo Andato.
«Lo sapete perché questo posto si chiama Casa del Drago, vero?»
I nasini fecero su e giù nell’aria muta.
«E perché?» chiese.
«Perché quando tu eri piccolo ci viveva un drago gigantesco che buttava tutto sottosopra e con le unghie graffiava le rocce. Come fai tu quando ti arrabbi», disse un tizio magrissimo che tutti chiamavano Stoccu.
Risero tutti, pure il Vecchio, che abitava un angolo di quella cava dismessa, scavata sulla cima del promontorio molti anni addietro. Ora somigliava ad una piscina in rovina per via della pianta rettangolare, delle pareti simmetriche e verticali, del fondo piatto.
«E prima del Drago? Chi c’era prima del Drago?», strillò Blu, che di fare domande non si stancava mai.

«Prima c’erano i mostri meccanici con le braccia a motore e la testa di vetro, i denti aguzzi di metallo, le zampe cingolate e il cuore a gasolio, affamati di uomini», rispose l’uomo.
Sui fianchi del fossato si potevano in effetti ancora distinguere le ferite procurate al monte dalle pale meccaniche e dai dischi d'acciaio che strappavano la pietra al ventre bianco della scogliera e la sezionavano in blocchi più piccoli, adatti a costruire case capaci di resistere alle folate furiose del Vento del Nord. Gli operai che ci avevano lavorato avevano abbandonato le barche al sale e il mestiere di pescatori ai ricordi, in cambio di abiti asciutti e di un salario sicuro. Quello era stato il primo sentiero sbagliato lungo il cammino del loro smarrirsi: gli uomini del mare, sulla terraferma, non sanno mai da che parte andare.
«Sì, ma come era fatta una bicicletta?» chiese ancora Blu. Nessuno dei bambini in effetti ne aveva mai vista una, allora il vecchio cominciò a descriverne ogni parte, il manubrio, il telaio, il sellino: «…e poi c’è la catena che serve a far girare le ruote. Per farlo bisogna usare i pedali, che questo rottame non ha più», concluse. Quelli lo guardarono come quando aveva cercato di spiegare <+corsivo base>aquilone<+tondo base> e c’era voluta quasi una settimana, finché non gli era rimasta altra scelta che costruirne uno. Si accorse che non avevano capito nulla, meno che mai cosa fossero i pedali, allora si alzò e usando un pezzo di carbone prese a disegnare le tre biciclette  sulla parete della cava. Le fece grandi, in modo da poterne evidenziare più facilmente i dettagli. Quando mancavano soltanto i pedali, si rivolse nuovamente ai piccoli in ascolto: «I padroni di Ferragliosa, Controvento e Raggidisole erano Facciadicane, Cuccumeu e Carnèra. Non erano i loro nomi di battesimo, ma tutti a Cannestorte li chiamavano così da tanto di quel tempo che in pochi ricordavano quale fosse quello vero, di nome». Accanto alle bici abbozzò una sagoma tonda, con le gambette corte: «Cuccumeu era grassottello e non dormiva mai, come le civette». I bimbi risero, anche se le civette facevano una paura tremenda, bianche come fantasmi nella notte senza luci. «Facciadicane invece, aveva un naso grosso schiacciato in mezzo a due guance grassocce e quando si arrabbiava, ringhiava, come fosse un bulldog. Carnèra invece, aveva i capelli da maschio e le ginocchia sempre sbucciate, perché portava la gonna corta, ma se osavi chiamarla femminuccia ti colpiva con un pugno fortissimo che ti lasciava morto in terra come quando si beve il succo dell’agave». I bambini risero moltissimo, perché il Vecchio si prendeva delle gran ciucche, con il succo d’agave.

Nel disegno, Facciadicane, Cuccumeu e Carnèra tenevano le mani allacciate. «Non avevano paura di nulla, ma della Casa del Drago sì. Per questo quando venivano qui a giocare si prendevano per mano. Per farsi coraggio. Per ciascuno gli altri due erano come i pedali della bicicletta. Senza i pedali non si va avanti. Senza, non si riesce a stare in equilibrio e resti fermo a guardare gli altri passare. Quando non sai dove poggiare i piedi, cadi. Sempre. Non c’è nulla da fare».
Soltanto allora aggiunse al disegno il dettaglio mancante. «Capito, ora?».
Nuovo movimento di nasini nell’aria. Questa volta però, da sinistra a destra. Da destra a sinistra. «No».
Solo Blu ebbe il coraggio di chiedere quello che tutti stavano pensando: «Ma dove finiti quei tre? Erano amici tuoi?»
A quel punto il Vecchio si voltò e dandogli le spalle disse soltanto: «Non vi interessa, andate via!». Sembrava arrabbiato ma loro lo sapevano che scherzava. I bambini si arrampicarono lungo pareti della cava e tracimarono oltre i bordi, sciamando in una nuvola di polvere e grida che si dissolse nella quiete immobile della fine del giorno. Rimasto solo, il Vecchio prese a cancellare il disegno che aveva tracciato. Ormai sicuro di non essere visto, piangeva.
Lanciò un ultimo sguardo a ciò che restava della bicicletta. Sul silenzio perfetto della cava di pietra, sul rottame abbandonato lì accanto, la voce di Facciadicane si posò leggera come una carezza di vento.
«Ciao Ferragliosa», disse.







Controvento, Ferragliosa e Raggidisole in una foto del Mondo di Prima


La Casa del Drago






                                                                    

Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...