Fine.
La Luce esplode improvvisa, inattesa.
Avanza con passo pesante di vento, urla furenti d'aria, tanfo putrescente di morte.
Si dissolve infine, rapida e silenziosa, così come era arrivata.
Solo polvere, bianca, si posa alle sue spalle, sul silenzio del mondo.
Via Satta, da una finestra.
Mi sveglio in un letto che non è il mio, in una stanza che non mi appartiene, in una vita che non conosco.
Mi sveglia la luce livida di un mattino muto di città; una domenica deserta, come sempre accade ogni volta che i negozi sono chiusi.
Ho freddo.
La schiena nuda incollata al muro gelido.
Il braccio destro imprigionato sotto un corpo estraneo e tiepido.
Il cervello pulsa e spinge gli occhi contro un cranio all'improvviso troppo piccolo, la bocca è un impasto metallico di saliva, alcol, sesso, vomito. Nonostante tutto, però, ho fame.
Scivolo oltre le coperte. Le mattonelle ghiacciate sferzano i piedi con frustate gelide di corrente elettrica, dalla punta delle dita all'ultima vertebra della spina dorsale.
Il cielo plumbeo dipinge di grigio il bianco scrostato delle pareti, i poster e le cartoline, e questa galleria di istantanee di luoghi e sorrisi e vite e volti sconosciuti prigionieri dentro celle plastificate di carta fotografica.
Immagino la vita superstite fuggire via subito dopo lo scatto dell’otturatore; via lontano, a cercare di sopravvivere in altri luoghi e in qualche modo, oltre queste sbarre di nitrato d’argento.
Incatenata ad un istante sigillato da una cornice a giorno, affacciata ad una delle prigioni colorate, mia sorella sorride all’infinito a questa stanza. La sua bocca si tende tra zigomi che sporgono come rocce, in bilico sull’abisso di orbite sprofondate in un viso scolpito dalle ossa del cranio.
Lacrime di pioggia rigano i vetri delle finestre, migliaia di occhi appannati fissi sull'asfalto, aperti sul niente.
Fisso il cortile interno e i palazzi al di là del vetro.
Incrocio uno sguardo sfocato dalla condensa. Due sagome scure, curve sotto la pioggia sottile, rincasano rapide.
Le luci in strada sono già accese, nonostante sia appena pomeriggio.
Lampeggianti blu di polizia sfrecciano verso il mare.
Si alza anche lei.
Non so chi sia.
Sento i suoi piedi scalzi sul pavimento, il soffio del suo respiro sulle mie spalle nude.
- Che strada è quella ? - Chiedo così, giusto per orientarmi. Non so dove mi trovo.
- E' via Satta-. Le parole le scivolano dalle labbra in un rivolo tiepido di fiato.
La luce arriva prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.
Cercando un puntino in mezzo al mare.
Ogni domenica mattina, appena sveglia, dalle finestre della mia casa nel Borgo cerco un puntino verde nel mare del golfo.
Il puntino è Gesuino. Mio marito.
Non so perché lo faccio.
Forse per abitudine.
Forse per assicurarmi che non affondi insieme a questa vita schifosa, ai sogni di pischella e poi di moglie prefabbricati e sgretolati come i muri di questo quartiere di merda. Ti aggrappi a qualsiasi cosa, per non annegare; e tutto quello che mi rimane, in questo naufragio di vita, è una zattera di marito ubriacone.
A volte lo trovo, Gesuino, in equilibrio precario sopra la barchetta di legno verde speranza che traballa scossa dai flutti e dalle bracciate ampie e vigorose di lenza con cui strappa sparedde dorate e mormore grasse come frittelle al fondale verdastro di Fanghittu, specchio di mare dai confini incerti, mutevoli e indefiniti, persi alla deriva tra il capo Sant’Elia e il molo di levante.
A volte provo pure a raccontarglielo, quando rientra a casa, che l'ho visto dalla finestra. Lui non mi risponde nemmeno e impegna la lingua impastata di Ichnusa in una gimkana catarrosa, trascinando le gambe malferme e disperate fino al divano del soggiorno.
Prima era diverso.
Prima c'erano il lavoro alla Rumianca, le estati al casotto della quarta fermata, le passeggiate in Via Roma e i film all'Ariston la domenica sera.
Poi più niente. Quando la fabbrica ha chiuso, abbiamo chiuso anche noi. Tutto finito, come la liquidazione bastata appena a liberare due figli dal pantano di questa periferia; due figli che ora ci pensano due volte prima di tornare qui ad infangarsi di passato, persi come sono uno dietro l’alta finanza, l’altro dietro le gonne corte.
Adesso vado a servizio da una signora di Castello, una di quelle madame che hanno ereditato da secoli di prepotenza un paio di cognomi e un palazzotto catalano. Non sogno più di andarmene dal quartiere, non sogno più la villetta, la cucina nuova, una messa in piega la settimana come quella gallina della mia padrona. Fatica sprecata.
Il tempo ha lavato via tutto come la pioggia di questa domenica del cazzo.
Tutto, tranne l'odore di piscio assorbito dai muri grigi dei portici sotto casa, museo di scheletri neri di motorini rubati e incendiati.
Sembra una fotografia in bianco e nero, questo quartiere.
Ci puoi trovare tutte le sfumature del grigio. Nient'altro che questo.
Oggi mi sono svegliata presto, come sempre.
Ho rifatto i letti, messo in ordine le stanze, lavato i pavimenti, sciacquato i piatti.
La spesa l’ho fatta all'alba, al mercatino, prima che la piazzetta del borgo si riempisse dei balossi di città.
Al mattino trovo i pesci migliori e le verdure più fresche; le orate scongelate e i muggini puresci li lascio ai signorotti dormiglioni dei quartieri eleganti.
Sono stanca, ora.
Mi siedo in cucina e mi guardo Buona Domenica in santa pace; nel frattempo faccio due spaghetti e mangio, tanto Gesuino tornerà tardi, ubriaco come al solito.
In televisione urlano tutti, come sempre, tra un balletto e l'altro. Lascio il piatto a metà. Fuori, la pioggia smette di cadere.
Mi alzo per cercare Gesuino in mezzo al mare.
Lo trovo.
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.
Aurora sogna.
Ho fame.
Cerco di non alzarmi dal letto.
Ho paura, una volta in piedi, di non riuscire a stare lontana dalla cucina.
Mi rannicchio sotto le coperte, le braccia strette più forte che posso intorno al petto.
Cerco di resistere ai morsi del cane rabbioso che mi azzanna lo stomaco.
Io sono più forte, io sono più forte, io sono più forte…
Tento di dormire il più possibile, per non pensare.
Ogni tanto bevo dell'acqua. Ne tengo un paio di bottiglie sul comodino, qui accanto.
Ho letto che il corpo umano può sopportare molti giorni di digiuno. Bere, invece, è indispensabile.
L'acqua mi aiuta a dilatare lo stomaco. A ricucire gli strappi laceranti della fame. Ad ammorbidire questo straccio strizzato che ho in pancia.
C'è silenzio, in casa: papà e mamma devono essere andati al mercatino di Sant'Elia, come ogni domenica, a farsi vendere i muggini pescati nel canale melmoso che attraversa la periferia della città; Alessandro avrà senz’altro dormito da una delle sue donnine, magari dalla collega che gli ho presentato solo ieri sera: una che ha collezionato più uomini che fotografie appese al muro della sua stanza.
Il silenzio dura poco, però, lacerato dall’ululato di una sirena che soffoca in uno stridio di pneumatici e nel fumo bianco delle gomme bruciate. Sento urlare “Polizia” al citofono, giù in strada. Il tonfo cupo del portone precede di un istante uno scalpiccio di passi rapidi lungo le scale; una successione di colpi secchi, un battere insistito di mano aperta squassa una delle porte che si aprono sul pianerottolo, scuote la quiete sonnolenta dell’appartamento accanto al nostro. Due voci nervose interrogano quella che dev’essere con tutta probabilità l’ultima preda femminile del nostro dirimpettaio. Un personaggio che maschera sotto camicia e cravatta il pelo lungo di lupo mannaro: lunga è la notte rischiarata dalla luna piena della new-economy; sotto la luce bianca di un sorriso falso e incantatore svena le malcapitate vittime irretite da percentuali suadenti e da un rassicurante doppiopetto blu. Bancario di merda.
I poliziotti lo cercano. L’amichetta biascica monosillabi.
Lui non c’è, non è in casa. Poco tempo dopo gli agenti se ne vanno.
Nuovo scalpiccio, tonfo di portone, stridio di gomme, ululato di sirena. Idioti.
Mi alzo dal letto, attraverso questa stanza scura e fredda come il corridoio di un collegio. Le pareti si richiudono alle mie spalle, il pavimento danza come un’onda lunga di marea.
Cammino scalza fino al bagno.
La pelle sotto ai piedi si appiccica un po’ alle mattonelle fredde; dopo qualche passo diventano insensibili.
Nuda, salgo sulla bilancia.
Prima un piede, poi l'altro. Vacillo. Mi appoggio al muro per non cadere.
Trattengo il fiato.
Prego, bramo un numero con un’ansia sudaticcia da giocatore d'azzardo. Il cuore accellera i battitiin modo quasi insopportabile.
Rien ne va plus.
Quarantasei, nero, pari.
Speravo quarantaquattro. Bene. Ma posso migliorare.
Dieci passi dal bagno all'andito.
Dieci passi, fino allo specchio grande delle mie brame.
Occhi neri liquidi, acqua scura riflessa dal fondo di un pozzo di orbite vuote, mi riflettono vacua ed evanescente. Ectoplasma di vene blu pulsanti sotto un soffio di epidermide trasparente. Mi piaccio.
Conto le costole come contavo le onde di sabbia sulle dune soffici di Chia spazzate dal maestrale d'inverno.
La pelle del ventre è tesa come il cavo di un equilibrista tra gli spuntoni sporgenti delle ossa del bacino.
Sembro un abito appeso ad un attaccapanni di clavicole.
Mi volto.
Quando la casa è vuota il tempo e lo spazio sono dilatati e immobili. Sto bene.
C'è una calma piatta di bonaccia estiva, anche se fuori piove.
Leggo un biglietto sul tavolo della cucina. Mamma ha una scrittura ordinata e tonda. Blu.
"C'e' il polpettone in frigo. L'ho conservato per te. Riscaldalo un po’ e finisci di mangiarlo, altrimenti diventa cattivo. Io e papà ci arrangiamo. Baci. Mamma. P.s.: sono o non sono una brava cuoca?"
E’ brava, mamma, non c’è che dire.
Ieri sera ho mangiato quattro fette di quella poltiglia di carne sforzandomi di sorridere.
Mamma era contenta.
Mamma non sa che dopo mezz'ora mi sono infilata due dita in gola e l'ho vomitato fino all'ultima briciola, il bastardo.
Qualche settimana fa ho trovato il coltellino che papà portava in campagna. Una pattadese piccola, manico nero e lama corta lucidata a specchio. Quasi un giocattolo. Il giocattolo serviva a pulire i funghi che raccoglievamo sui monti, a Gutturu Mannu.
Ora ci gioco io.
Di solito incido la carne delle gambe, partendo dalla caviglia. Rampicanti di spirali rosse fino al ginocchio.
Ma solo quando ho molta fame. Il dolore distrae il cane rabbioso dallo stomaco. Lo calma.
Poi mi fascio, e nessuno se ne accorge.
Neanche Mauro se ne accorge.
Quando scopiamo tengo le calze.
Di cotone. Fino al ginocchio.
Gli ho detto che mi eccita e lui è contento. Gli basta.
Mauro ha quarant’anni, ma ne dimostra trenta. Fa un lavoro importante ed è bellissimo.
Mauro me l'hanno presentato sei mesi fa, al Libarium.
Alla selezione per veline.
Il giorno dopo mi ha baciata, sulla terrazza del Bastione di Santa Croce.
Due giorni dopo mi ha scopata. Io l'ho lasciato fare.
Mauro dice che sono bella.
Mauro dice che neanche Melissa Satta a diciassette anni era bella come me. E neanche Giorgia Palmas.
Dovrei solo dimagrire un po’.
Mauro dice che adesso le ragazze piacciono così, spigolose. Emaciate, ha detto.
Mauro dice che ce la posso fare.
Io ci credo a quello che dice Mauro. Non mi mentirebbe mai.
Poi lui è un esperto. Nel tempo libero collabora con un’agenzia di modelle qui in città. E' il migliore amico del capo, si conoscono dai tempi del liceo Dettori.
E’ il suo talent scout.
Il capo, Fabrizio, è un marcio. Ha la testa gigante e lucida, le labbra umide e gli occhi porcini. Il sorriso affilato a lametta. Il maglioncino sempre sopra le spalle. Un gaggio.
Fabrizio ha visto le foto che mi ha fatto fare Mauro. Il book, si chiama.
Ha detto che sto andando alla grande.
Che se continuo così, se mi comporto bene, tra due o tre mesi faccio il provino a Roma.
Io, con Fabrizio, il capo, mi comporto bene due o tre volte a settimana. Non si sa mai.
Ho le gambe pesanti.
Faccio fatica a scollare i piedi dal pavimento di cucina.
Da tre mesi non ho più le mestruazioni.
Mi si appanna la vista, ogni tanto, ma poi passa.
Dormo sempre, per non pensare.
Appoggio la fronte alla finestra che si affaccia sul giardino.
La gatta, stesa sotto la veranda, conta le gocce di pioggia che orlano i balconi come luci colorate di Natale. Giuditta.
Sorrido al suo ronfare lanoso e caldo di gomitolo.
Il cellulare squilla un po’, prima di smettere.
La luce del lampadario trema appena, prima di spegnersi.
La pioggia scroscia debolmente, prima di gocciolare silenziosa.
Il cielo si apre, in uno sbadiglio di nuvole.
Faccio appena in tempo a vedere la gatta schizzare via veloce, e scomparire in un lampo grigio che sfuma tra i muretti e le ringhiere arancioni.
Un istante primo della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.
Grafici.
- Signor Deiana ? -
La voce alle mie spalle è ferma, ma gentile.
Non li aspettavo così presto. Chissà come hanno fatto a trovarmi tanto in fretta.
Sto fermo, immobile. I gomiti poggiati sul parapetto di calcare bianco della Torre dell'Elefante. Ho tutto il golfo davanti agli occhi. Fisso la Sella del Diavolo, lontana, sfocata da una pioggerella sottile.
- Signor Deiana, per favore -
E' la fermezza ad avere il sopravvento, ora, nel tono.
-Non le sembra un grafico?-, dico senza voltarmi.
-Come ?-
-Un grafico, dico, la Sella del diavolo, non le sembra un grafico?-.
-Non so, non ci avevo mai pensato-.
-Io si. Me ne intendo, sa? Vedo grafici tutti i giorni: torte, righe, colonne, istogrammi. Li stampo, li analizzo. Li uso come una spada o come un fiore, per ingraziare o maledire, per adulare o minacciare. Per vendere.
E' il mio lavoro -.
Mi volto, lentamente.
La voce alle mie spalle è quella di un poliziotto che avrà più o meno la mia età, una quarantina d'anni. Jeans, giubbotto di pelle, maglione grigio a collo alto. Faccia da sbirro. Il suo collega, più anziano, sta due metri più indietro. Non parla. Mi guarda fisso. Fuma.
-Sono stato in ufficio anche stamattina, lo sa? Anche se è domenica-
-Lo sappiamo, signor Deiana-.
-Ieri sera mi ha telefonato il Responsabile di Mercato, alle sette. Mi ha detto: vieni, è urgente. Sono andato. Ufficio bianco, luce bianca, scrivania bianca, grafici. Molti grafici. Neri. Sparsi sul tavolo. Ha cominciato a parlare nella sua lingua orrenda.
Mi ha urlato che il management aziendale era furibondo. Che la rilevazione dei dati economici di budget redatti dal Business Performance Menagement, evidenziava un gap incolmabile tra i report e gli schemi di preventivazione finanziaria. Che eravamo stati incapaci di anticipare i trend e di utilizzare gli input in maniera pro-attiva. Che non avevamo condotto nessuna attività di scenario analysis o di stress testing per valutare gli effetti finanziari di opzioni strategiche alternative. Che le operazioni di reporting sull'andamento della produzione e della vendita evidenziavano che lo scostamento dai valori target incide così negativamente sull'outlook dell’area commerciale da pregiudicare persino la performance del nostro benchmark a cinque anni-.
- Le risorse umane sono un branco di cani sciolti: non vendono un cazzo. I clienti vanno e vengono dalla filiale come se fosse una scampagnata a Monte Arci. I venditori devono essere aggressivi, chiaro? Devono avere la bava alla bocca! E devono fare in modo che la bava non si veda, quando sorridono; perché mica se ne dimenticano di sorridere vero? Oppure gli devo spaccare il culo? Non è possibile che un cliente si alzi dalla sedia senza avere uno dei nostri prodotti ad Alto Valore Aggiunto! Sai quant'è l'up front sulle ultime obbligazioni, coglione? Sai quanto ci guadagnerebbe la tua agenzia di merda? E allora VENDILE, NON ME NE FREGA UN CAZZO VENDILE ANCHE AI MORTI MA VENDILE, CHIAROOOO?-.
- Ha concluso il comizio in un delirio di decibel. Io ho pensato: ma come parla? Come riesce a violentare una lingua in questo modo barbaro? Questo bellimbusto istruito da nient'altro che gazzette dello sport e manuali per imbonitori travestiti da "dispense formative", come fa, ad esprimersi in questo modo?
Il problema era questo ha capito ora, agente? Non stavamo vendendo un cazzo. Eppure la nostra non è un’azienda in crisi, anzi, è la prima sul mercato. Gli utili sono alle stelle, 1,75 miliardi di euro solo nel primo trimestre dell’anno, ma evidentemente non erano sufficienti, non ne avevano ancora abbastanza. Mi ha lanciato un mazzo di fogli zeppi di dati, il capo: -adesso te li studi, e ritorni domani mattina con una strategia convincente. Alle otto, che poi ho l'aereo per Milano. Fa in modo che sia credibile perché altrimenti ti sbatto così lontano da casa tua da farti dimenticare persino il colore del mare-.
- Mi sono alzato e sono tornato a casa.
Ho esaminato grafici per tutta la notte, senza riuscire a cavarne piede.
Quando sono stato assunto avevo 25 anni. Non era il lavoro che sognavo di fare e per il quale avevo studiato all’università, ma a quel tempo mi era sembrato un impiego sicuro e ben pagato. Con la stessa velocità che ha impiegato la mia laurea a sprofondare nel cesso, ho scalato i gradini della gerarchia bancaria, fino al ruolo di marketing manager di filiale. Che tradotto significa: vendere. Anzi. Costringere i clienti a comprare e i tuoi collaboratori, il tuo team, a vendere. Quando non basta la verità, cioè quasi sempre, si mente; quando non bastano le buone maniere, si minaccia. E' facile.
E' facile, ma io non ce l'ho fatta più. Ero nauseato dai sorrisi finti e di circostanza, dagli abiti firmati comprati a rate, dalle cene aziendali, dai viaggi premio, dall'ignoranza, dall’immoralità, dal profitto ad ogni costo, dalla sottomissione servile, dalla superficialità, dalle minacce, dalle lusinghe, dalle ipocrisie.
Quando sono tornato in ufficio, stamattina, il capo mi ha accolto con un ghigno supponente dipinto sulla faccia. Sbarbato, pettinato, laccato.
Mi ha detto: - sentiamo-.
Io non ho detto niente. Mi sono alzato e ho fatto tre giri intorno alla scrivania. Non se lo aspettava: ha smesso di sorridere. Forse cercava di ricordare quale capitolo del manuale di Tecnichedicomunicazionecommercialenonverbale avrebbe potuto spiegare il mio comportamento. Forse tentava di ricordare qualche risposta già pronta predisposta preconfezionata da riscaldare e servire. Il Mercato non improvvisa.
Ho preso il giubbotto.
-Me ne vado-, gli ho detto.
Mi ha lanciato un: - ma dove vuoi andare, deiana ( per cognome, minuscolo )-.
- Un secondo solo, mauro (per nome, minuscolo); torno, e te lo spiego-.
Mi sono messo il giubbotto e sono tornato indietro. Non ha parlato. Non si e' chiesto niente. Non ha fatto in tempo. Gli ho spiegato quello che l’esperienza evidentemente non gli aveva insegnato, mentre l'acciaio lucido delle forbici gli trapassava il collo.
Avrebbe dovuto saperlo meglio di me: il mercato è imprevedibile.
Ha sollevato appena un braccio, stupito del liquido rosso scuro che sgorgava a fiotti, stupito di quel sangue, stupito che fosse il suo.
Gli schizzi hanno disegnato sul muro dei bellissimi grafici.
Strano vero?
Ma voi questo lo sapete già. I vostri colleghi avranno già fatto i rilievi, il magistrato avrà già ordinato la rimozione del cadavere.
La banca avrà già ridipinto i muri e nominato un nuovo responsabile.
Il mercato reagisce in fretta-.
-Andiamo?- mi dice lo sbirro.
-Andiamo, andiamo. Vorrei solo chiederle una cortesia.-
- Dipende-
-Mi lasci guardare il golfo. Solo un minuto. E' bello anche così; anche sotto questo cielo grigio-.
La pioggia scroscia debolmente, prima di gocciolare silenziosa.
Le nuvole si schiudono in un sorriso timido di cielo azzurro.
Penso alla ragazzina che ho lasciato addormentata in casa mia, questa mattina. Non so neanche come si chiama. Quanti inganni.
Penso ad Aurora, la figlia dei miei vicini, e un po’ mi dispiace, di averle ammazzato il “fidanzato”. Quasi mi è venuto un colpo, però, quando ho visto quel maiale riaccompagnarla a casa. In fondo, ho fatto un favore anche a lei.
Guardo i monti di Capoterra, la laguna di Santa Gilla, e una barchetta verde ferma in mezzo al mare, tra il molo di levante e capo Sant' Elia; ferma nello stesso punto in cui insieme a babbo e mio fratello pescavamo le sparlotte: a Fanghittu.
Mi volto, rapido, e sparo.
Non se lo aspettavano.
Becco lo sbirro parlante in pieno petto. Si piega sulle ginocchia. Guarda la macchia rossastra che si allarga sul maglione grigio. Guarda me, incredulo. Sorride, come se fosse uno scherzo.
L'altro, il muto, estrae la pistola e fa fuoco.
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.
Pioggia.
- Che mestiere di merda!-.
Sono vent’anni, che lavoro sotto la pioggia.
All'inizio, quando ero agente scelto, ai posti di blocco; e durante le guardie, di notte per giunta.
Dici: va beh, è l'inizio.
L'inizio un cazzo.
Adesso, da ispettore, non è cambiato niente.
E' da stamattina che giriamo sotto questo diluvio. Per cosa, poi?. Tutto per beccare un coglione che ha fatto fuori il suo capo.
Di sicuro io, invece, come minimo mi becco una bronchite. Almeno me ne sto in casa senza fare un cazzo. Magari in compagnia di una di quelle troie che abbiamo fermato l'altra sera in viale Monastir e che abbiamo rilasciato dietro "cauzione".
Siamo entrati negli uffici di una banca, oggi, all’interno di un palazzo completamente bianco: sale bianche, tappeti bianchi, mobili bianchi. Tutto lindo e luccicante, tranne la stanza della direzione: sangue, ancora fresco, colava dalle pareti sul pavimento in lacrime spesse, macchiando la moquette azzurra di larghi lividi viola; le mura sembravano un dipinto astratto, tinte com’erano di quel rosso cupo, denso.
L'autore dell'opera d'arte era stecchito sopra una poltrona di pelle nera: un paio di forbici conficcate cinque centimetri sotto l’orecchio sinistro, non gli dovevano aver lasciato neanche il tempo di pregare.
Parte del sangue aveva inzuppato l’abito di marca. Il resto era ovunque; a parte l'affresco sul muro, gli schizzi avevano raggiunto la scrivania, il lampadario, e i fogli zeppi di grafici sparsi sul tavolo e sul pavimento. La poltrona invece era quasi intatta, protetta dalla grossa mole del cadavere; ho pensato di portarmela via, per quanto era bella: girevole, schienale alto, braccioli morbidi. Magari ce l’avessimo noi, in Questura.
La guardia giurata all'ingresso, poco più intelligente di un lombrico, ci ha riferito di aver visto entrare solo una sola persona, un collega del morto, verso le otto. Ha sentito strillare, ma non si è preoccupato più di tanto: - urlano tutti come pazzi, qua dentro, soprattutto quello lì -, ha farfugliato indicando il lenzuolo bianco che ricopriva a stento il corpo. Ci siamo fatti dare il nome dello sforbiciatore e mezz' ora dopo eravamo già all’interno del suo appartamento, ad interrogare una ragazzina appena maggiorenne, ancora mezzo addormentata, che ha farfugliato tra un monosillabo e l’altro di conoscerlo appena. Troia. Unico indizio: le viuzze strette di Castello, il quartiere-fortezza costruito dai dominatori pisani e catalani, dove il tizio, a detta della troietta, amava passeggiare.
Raccattiamo due fotografie del nostro uomo e partiamo. Parcheggiando l’auto sotto le mura bianche della città vecchia, quasi investo due fidanzatini che escono con la faccia sognante da un Caffè alla moda. Mi danno la nausea, questi idioti. Entriamo nel quartiere fortificato dalla Porta dei Leoni.
A piedi.
Sotto la pioggia.
Il mio collega non parla. E' più anziano di me, più vicino ai sessanta anni che ai cinquanta. Non l'ho ancora inquadrato bene, è da poco che ci hanno messo insieme. So solo che non parla.
Tento di fare un po’ di conversazione.
E dire che ero arrivato in Sardegna pensando di godermi un po’ di sole!-.
Niente, silenzio.
- Si stava meglio a Genova. Bella città, belle puttane. Quel cazzo di G8 di merda ha rovinato tutto. Prima ci hanno ordinato di pestare. E noi cosa abbiamo fatto? Pestato. Con impegno, dedizione e spirito di corpo. Io, poi, non mi sono risparmiato. Sono un tipo scrupoloso, gli ordini mi piace eseguirli alla perfezione. E quando si tratta di comunisti, anarchici, froci, negri, puzzoni, fannulloni, pacifisti del cazzo e punkabbestia, beh, come dire, mi inviti a nozze.
Mi avevano assegnato a Bolzaneto, dove i colleghi scaricavano tutte quelle merde, già ammorbidite per benino. Io facevo parte del comitato di accoglienza. Il benvenuto consisteva sostanzialmente in un'altra razione di botte, giusto per fargli capire che non erano più in corteo, liberi di rompere i coglioni.
Comunque.
Per una settimana, tutti contenti. Politici e superiori. Poi, dopo, apriti cielo. Forse abbiamo sbagliato. Siamo stati troppo buoni, ci siamo distratti. Avremmo dovuto pestare anche tutti i fotografi e tutti i cameraman, spaccare ogni macchina fotografica e tutte le telecamere. Perché dopo, le immagini, le hanno viste tutti. E quei bastardi che sono riusciti a uscire sani di mente dalla caserma, e dalla scuola Diaz, hanno pensato bene di coalizzarsi e denunciarci ai loro compagni magistrati.
E' successo un casino. I nostri superiori, quelli non inquisiti a loro volta, ci hanno scaricato. Bella riconoscenza!
Comunque.
Mi sono beccato un procedimento penale per lesioni volontarie, percosse, tentato omicidio, sequestro di persona e tentata violenza sessuale. Una ventina di pidocchi comunisti, italiani e stranieri, mi hanno riconosciuto.
I miei capi mi hanno consigliato di cambiare aria -.
L'aria è cambiata. Il clima, no.
Pioggia. Sempre, solo pioggia.
Il collega, il muto, si ferma, mi guarda.
Sembra voglia dire qualcosa, finalmente.
-Sei un povero stronzo-, sibila.
Ma vaffanculo. Mi volto e continuo a camminare. Ci manca solo un altro casino.
Per fortuna lo becchiamo subito, il tizio che cerchiamo.
Sulla terrazza della Torre dell'elefante, poggiato al parapetto. Fissa un punto lontano, in direzione del Poetto.
Tento un approccio morbido.
Deciso, ma gentile. Da manuale.
- Signor Deiana ? -
Niente.
Cominciano a girarmi i coglioni.
Ritento.
- Signor Deiana, per favore -
Finalmente parla.
Mi chiede se ho mai pensato che la Sella del Diavolo potesse sembrare un grafico.
Ripenso ai fogli schizzati di sangue sparsi per tutto l’ufficio e ne deduco che: primo, l’uomo che ho di fronte è pazzo; secondo, che un ragioniere schizzato è meno pericoloso di una banda di narco-trafficanti armati; terzo, che se sto al suo gioco, magari, tra cinque minuti siamo tutti in macchina, al calduccio.
Gli rispondo che non mi era mai venuto in mente, che potesse sembrare un grafico.
Funziona: lentamente, il tipo si volta.
E’ giovane, come me.
Mi racconta del suo lavoro e di tutte le minacce e i soprusi che ha dovuto sopportare dal suo capo, anzi del suo ex capo, ormai.
Mi sta simpatico, in fondo; ha fatto bene ad ammazzare quella faccia di merda. Io avrei fatto lo stesso, al suo posto, e per molto meno.
Mi chiede di lasciargli guardare il panorama. - Solo un minuto -, dice.
Glielo concedo
Da Buoncammino, tanto, non vedrà nulla per chissà quanto tempo.
Ha ragione lui, è bello quassù. Tutta la città è adagiata ai nostri piedi.
Guarda verso Capoterra, poi fissa una barchetta verde appena fuori dal porto.
La pioggia scroscia un po’, prima di gocciolare silenziosa.
Si gira di scatto.
Un colpo tremendo al petto mi spinge tre, quattro passi indietro.
Anticipa di poco il boato dello sparo.
Le orecchie fischiano impazzite e tutti i rumori di fondo svaniscono. Resta solo un ronzio ovattato.
Un bruciore sottile si allarga in un calore liquido, come questa macchia rossastra che mi sta inzuppando il maglione.
Le ginocchia cedono di schianto.
Penso: non può essere.
Penso: ora mi alzo.
Penso: mi uccide questo killer in giacca scura e jeans sdruciti, faccia pulita da laureato Bocconi. Un bancario.
La cosa mi fa ridere.
Lo guardo.
Osservo il suo braccio teso e la mano grassoccia che regge la pistola.
Il calore mi abbandona, come acqua tiepida che defluisce dallo scarico di una vasca da bagno.
Penso: finita.
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.
Dieci fotogrammi.
Primo fotogramma. Un caffè del centro, elegante, una domenica di pioggia. Legno, marmi, tavolini tondi di ferro battuto. Jazz, Theo Monk. Mattino. Primo mattino. Penombra, silenzio. Sbuffi della macchina da caffè. Tintinnare di cucchiaini sulle tazzine. Odore buono, caldo, dolce. Giornali. Occhi assonnati.
Secondo fotogramma. Lei. Entra. La riconosco subito. Dai capelli, ricci. Dal taglio degli occhi. Dalla bocca. Dai denti. Sono passati dieci anni. Da quando se ne è andata. Non l'avevo più vista. Ma è lei. E' sempre bella.
Terzo fotogramma. Si siede al mio tavolo. Dieci anni coperti da cinque passi. Parliamo, ma non più di tanto. Mi trema la voce. Non voglio che se ne accorga. Non voglio sapere dove è stata, e con chi, cosa ha fatto. Non mi interessa. Mi importa solo che fuori piova, e che si stia bene, al caldo, qua dentro. Mi importa solo scoprire che il tempo non cambia il colore degli occhi, così come cambia quello dei capelli.
Non parla molto neanche lei. Le trema la voce. Ha paura che me ne accorga.
Quarto fotogramma. Usciamo. Un’auto della polizia quasi ci investe. Due agenti s’incamminano rapidi verso il Castello. Uno di loro mi guarda storto. In macchina, finestrini chiusi. Vetri rigati di pioggia. Polvere. Fabrizio De Andrè.
Quinto fotogramma. Un palazzo del centro. Uno sguardo sconosciuto e assonnato mi fissa, protetto da un vetro appannato. Dentro casa: un corridoio, buio. Luce spenta per paura di svegliarmi. Ho una mano dietro la schiena, che tiene la sua. La guido. Lei, alle mie spalle, mi segue. Docile. Si fida. Lei sa chi sono. Io, sono anni che non lo so più, chi sono.
Sesto fotogramma.
Il letto è sfatto. Basso, di legno scuro, orientale. Lenzuola giallo ocra. E amaranto. Libri sui comodini. E per terra. Vestiti sparsi. Il letto è freddo. Lei è sopra di me. Bianca. Liscia. Morbida. La riconosco subito. Dai capelli, ricci. Dal taglio degli occhi. Dalla bocca. Dai denti. Sono passati dieci anni. Da quando se ne è andata. Non l'avevo più vista. Ma è lei. E' sempre bella.
Settimo fotogramma. Le scivolo dentro in un soffio. Inspira. Si beve d’un fiato tutta l'aria di questa stanza. Quest'aria ferma. Immobile, ad aspettare. Stringe le palpebre. Poggia la testa tra la mia spalla e il collo. I suoi capelli addosso. Lunghi. Mi fanno il solletico. Li respiro. Si muove piano. Liquida. Si adatta ad ogni incavo del mio corpo. Respira forte.
Ottavo fotogramma. Con le mani intorno alle sue spalle, tra i capelli, dietro la schiena, sui fianchi. Intreccio le braccia. La abbraccio più forte che posso. Si muove veloce. Sempre più veloce.
Nono fotogramma. Fermi. Immobili. Ansimiamo. Il cuore impazzito contro lo sterno, sotto un lenzuolo profumato di pelle bianca.
Decimo fotogramma. Palpebre pesanti, occhi socchiusi. Ultimo pensiero, chissà perché: la barca di legno di papà, verde speranza. Chissà se è uscito per mare, oggi. Ci addormentiamo.
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.
Inizio.
La Luce arriva improvvisa, inattesa.
Avanza con passo pesante di vento, urla furenti d'aria, tanfo putrescente di morte.
Si dissolve infine, rapida e silenziosa, così come era arrivata.
Solo polvere, bianca, si posa alle sue spalle, sul silenzio del mondo.
Un millennio più tardi, dove un tempo sorgeva La Città, al centro della strada larga che portava verso il mare, un fiore spunta tra le crepe dell'asfalto.
Il primo, dopo mille anni di polvere.
Sotto, la terra brulica di vermi.