venerdì 24 febbraio 2017

Per dare retta a voi



Per dare retta a voi siamo sbarcati dalle nuvole, siamo colati giù dal cielo attraverso gli strappi del vento.
Siamo scivolati a valle come l’acqua dei torrenti, abbiamo scavalcato i muri delle tanche come i cinghiali di notte, siamo ruzzolati rapidi come i ciottoli del fiume.
Per darvi retta siamo salpati dalle nostre isole d’erba su caravelle di cuoio, cucite con chiodi sottili di mani e di unghie in trame fitte di maledizioni e sospiri, al barlume tremolante di lanterne d’occhi palpitanti di preghiera.
Ci siamo alzati dalle nostre sedie di roccia, dai nostri letti di quercia, dalle nostre vasche d’ombra.
Ci siamo svegliati dai nostri sogni silenziosi.
Non pareva lontana, la pianura, da questa scheggia di sasso conficcata nel bosco, non sembrava distante la terra piatta della valle, da questa foglia di pietra appesa a questo ramo di cielo.
Pareva vicina come nelle giornate limpidissime trasparenti spazzate dal vento del nord, quando sembrava fosse sufficiente stendere il braccio per attraversare la vallata e toccare con la mano l’altro versante dei monti, o allungare le gambe per bagnare i piedi nel mare accecante d’occidente.
Siamo partiti prima in pochi, poi in tanti, in fila dietro alle vostre promesse, e il vento delle vostre parole vuote ha gonfiato le vele della nostra ingenuità.
Noi non lo conoscevamo, il vostro mare d’inganni, noi non eravamo fatti per navigare sorrisi fasulli, per scandagliare i fondali melmosi della menzogna, per aggirare scogli insidiosi d’inchiostro, per galleggiare sugli abissi di parole non dette. E siamo affondati.
Noi non avevamo occhi se non per sorvegliare le greggi lungo il sentiero, orecchie per ascoltare l’allarme dei cani pastore, voci per cantare a tenore alla festa grande della mietitura. Il fiato non ci mancava, nossignore, per scalare l’altipiano d’estate, o per scivolare in pianura d’inverno, per soffiare musica dalla canna di giunco, per sbudellare la terra affondando l’aratro spietato come la lama dell’assassino, più sudati dell’asino che tira la corda, con le braccia più gonfie del fiume dopo la pioggia d’autunno, le mani più strette delle pinze del fabbro sullo zoccolo del cavallo.
Le vedi queste dite annodate attorno a queste mani di sughero? Queste erano mani più veloci degli occhi e del cervello, e sfidarci alla morra era tempo sprecato. Queste erano mani pietose sullo sguardo degli agnelli nati col percorso segnato come la pioggia che precipita sul letto del torrente, premurose nel far nascere e morire, nel dare e togliere la vita, senza dolore.
Queste erano mani spietate nel vendicare l’offesa, accurate nell’innestare un figliastro germoglio sulla pianta matrigna, prodigiose nel modellare il latte in forme rotonde di sale, generose nello spillare allegria dal fondo delle botti.
La notte non ci ha mai fatto paura, anche se immensa quanto l’orizzonte che avevamo di fronte, anche se più buia dei ricordi che non tornano più, o più ripida di una sbornia, o irrimediabile quanto un amore tradito. Non ci ha mai fatto paura, la notte, perché abbiamo sempre saputo da cosa difenderci, e cosa temere, e come combattere. Lo sai quando hai paura? Certo che lo sai. Hai paura quando non sai quello che ti aspetta, quando discendi lento gradini umidi di pietra e muschio che portano all’abisso scuro della cantina, chiedendoti cosa ci sia dietro l’angolo buio alla fine della scala sprofondata nel nulla dell’incubo, dove da bambino con una scusa bugiarda ti spedivano i grandi, un po’ per gioco un po’ per sfida di uomo, e un po’ per accertarsi che non fossi migliore di loro.
E se da bambini combattevamo il buio con le canzoni, da grandi abbiamo fatto lo stesso; e con la notte abbiamo fatto la guerra a scoppi di vino, e col fuoco in mezzo ad un cerchio di facce, e con i respiri nebbiosi a mischiarsi col fumo di fiamma che estorce lacrime agli occhi prigionieri dell’orgoglio e secca la gola, ma fa del formaggio un torrone e del caglio un confetto.
Ora si che ci fa paura, il buio, e non perché non abbiamo canzoni da cantare o il fuoco da stringere al cuore ed il vino da ridere, ma perché non sappiamo, alla fine degli scalini ripidi della notte, di che colore sarà il giorno domani. Domani, per noi, è l’angolo buio della cantina.
Ma voi ci avevate assicurato che non c’era nulla da temere, e noi allora siamo partiti, prima in pochi, poi in tanti, in fila dietro alle vostre promesse e il vento delle vostre parole vuote ha gonfiato le vele del nostro coraggio.
Così abbiamo abbandonato la carne agli artigli del falco, e gli occhi al becco del corvo, il grano al forno del sole e alla macina delle suole, i sentieri alle unghie dei rovi, il muschio delle rocce alle bocche affamate delle bestie.
Il custode senza controllo diventa aguzzino, ma questo voi lo sapete, vero? Il cane libero dalla catena ha affondato i denti nella carne del padrone, e i fiocchi di lana delle pecore morte hanno farcito il cielo come la neve leggera di dicembre.
Gli alberi d’olivo trascurati dalle cesoie sono diventati bastioni altissimi e fortezze inespugnabili, i frutti grotte di larve e covi di mosche, l’oliva ha evaporato l’acqua e avvizzito la polpa intorno al seme carbonizzato di rughe.
I maiali hanno urlato a lungo alla notte la loro fame e la nostra indifferenza, si sono nutriti della nostra ingratitudine, hanno triturato le catene della sete con le mascelle robuste dell’impotenza.
I cinghiali hanno abbattuto i muri di pietra delle vigne con la furia inesorabile dell’onda di piena del torrente, si sono saziati della nostra assenza, si sono dissetati alla cantina della nostra allegria senza lasciarci neanche l’ultima goccia d’oblio.
Ma voi ci avevate assicurato che non c’era nulla da temere, e noi allora siamo partiti, prima in pochi, poi in tanti, in fila dietro alle vostre promesse e il vento delle vostre parole vuote ha gonfiato le vele della nostra povertà.
E quando non abbiamo avuto più niente allora i vostri sarti ci hanno spogliato degli abiti e rivestito di involucri, i vostri maestri hanno interrogato e promosso il suono delle parole tutte uguali e bastonato e bocciato gli accenti, i vostri cuochi hanno cotto senza compagnia cibi che non erano di nessuno fatti per chiunque.
L’identità negata l’avete chiamata uguaglianza. Il passato sepolto l’avete chiamato civiltà. Il futuro che ci avete venduto l’avete chiamato progresso. Questi rumori e questi odori e questo fumo li chiamate tecnica. Come lo chiamate dove non cresce più niente? Noi lo chiamiamo abbandono, noi lo chiamiamo disacattu, noi lo chiamiamo morte.
Per dare retta a  voi abbiamo ci siamo ammanettati a guanti di pelle e stretto il capo in morse di elmetti, velato gli occhi di lacrime chimiche, incatenato i piedi a ceppi di cuoio chiodato.
Per dare retta a voi abbiamo confuso il giorno con la notte, barattato il sonno con la veglia, svenduto la voce delle madri e delle mogli per il suono di una campana, sezionato il corpo giovane di una giornata di sole con il bisturi affilato delle lancette di un orologio.
Con le parole che ci avete insegnato non chiamiamo i nostri figli, non innamoriamo le nostre donne, non preghiamo i nostri morti, non richiamiamo le nostre bestie; le vostre parole non conoscono il passo del bosco e il risveglio della luce e il ronfare sommesso del fiume. I gesti a cui ci avete ammaestrato sono tutti uguali, ripetuti uno dietro l’altro, per tutta la durata di questa agonia di giornata scandita dal rantolo metallico di questa maledetta sirena. Anche i nostri, di gesti, erano uguali, lo so quello che volete dire, ve la leggo in faccia l’arrogante supponenza della vostra scienza ignorante, ma noi abbiamo imparato a muoverci dal mondo, le stagioni il sole e le stelle ci hanno insegnato a danzare in cerchio, girando in tondo, e l’acqua il vento il fuoco e le bestie ci hanno insegnato a cantare; noi abbiamo imparato a saltare dalle capre, a mascherarci dal legno, a uccidere dall’aquila, a morire dalle foglie.
Quello che noi abbiamo fatto, prima di dare retta voi, è stato essere parte indistinguibile dal tutto.
Noi siamo stati filo d’erba nei campi, pioggia nell’acqua del lago, roccia nei monti, buio nella notte, silenzio nell’ombra, vino nell’uva, farina nel grano, germoglio nel ramo.
Voi avete tutto contro, perché pensate di essere differenti. E forti.
Ma non si può ballare in tondo girando dalla parte sbagliata, a voi questo la scienza non lo può insegnare, ma noi si, che avremmo potuto farlo, se aveste avuto orecchie fatte per capire il significato delle parole.
Per dare retta a voi, abbiamo ascoltato, ma ora voi ascoltate me.
Io lo so che vorreste sapere come mi chiamo, che vorreste sentire il mio nome.
Ma pronunciare il nome che voi mi avete dato, io non lo so fare; io l’ho dimenticato, il nome che mi avete dato, Signor Giudice, anzi non l’ho mai saputo.
Come dite?
Eja, per questo l’ ho ammazzato quel cane del capoturno. Per il mio nome.
Perché io ce l’ho un nome, da quando sono nato, ed è il nome che mi hanno dato i miei padri, e un nome è storia e un nome è memoria. Siete voi che dovete impararlo; in cambio vi lascio i numeri di matricola. Ma il mio nome, come lo voleva sentire quel cane, in italiano, io non lo so, io non ve lo dico.
Perché se quello che ci avete venduto è un mondo catena, ricordatevi, Giudici e Marescialli, che  voi sarete pure gli ingranaggi, ma noi, noi siamo i granelli di sabbia.
E ora ve lo posso anche dire, come mi chiamo.

Mi nanta Zuanninu Piras. De Ardaùle.
Fizzu de Remundu e de Paska Carta.






La confraternita del granchio

Il vento ci inchioda a terra da due giorni. Durerà a lungo. Quando soffia con furore di drago, il maestrale muove treni d’acqua che corrono rombando verso la costa per esplodere bianchi di schiuma all’impatto sugli scogli. Per tenere i granchi in vita finché il mare non ritornerà calmo li mettiamo in una bacinella dai bordi alti, insieme a due dita d’acqua di mare e qualche pietra raccattata dalla spiaggia che useranno per nascondersi e stare all’asciutto di tanto in tanto. Stacchiamo piccole patelle dalle rocce e gliele diamo in pasto insieme a piccoli pesci che la mareggiata ributta morti sulla spiaggia. Al terzo giorno ci raggiungono Aurora e Radiolina. Notano la bacinella e il suo contenuto. Anna spiega che non sono granchi, sono esche: il loro destino è quello di finire impalati su un amo che gli trapasserà la parte posteriore del carapace, tenendoli vivi per un paio d’ore sul fondo del mare. Le orate non gli resistono. Lo racconta con una luce sinistra negli occhi: Radiolina e Aurora impallidiscono. Anna sorride. Lo stesso sorriso di quando le chiedo dove prende le zampe che usa per attirare i granchi in trappola: - Anna, dove hai preso quelle zampe? E soprattutto, dov’è il resto dell’animale?-. Lei non dice nulla. Ad ogni suo sorriso corrisponde ad un gatto in meno nel vicinato. Liberateli, ci dicono. Che vi costa? Col passare dei giorni, bloccati a terra, trascorriamo il tempo ad osservare i nostri piccoli prigionieri. Loro smettono di rifugiarsi sotto le pietre ogni volta che ci affacciamo sulla bacinella per nutrirli o per cambiare l’acqua. Li battezziamo: Chiosaè  è il più barroso, sempre in prima fila, le grosse chele sollevate davanti agli occhi, come un marinaio pronto alla rissa. C’è AmandaLear, un ciuffo di peluria rossastra sulle zampe e sul carapace. E poi Megliosolo, che sta sempre in un angolino e  Lasciamistare che litiga sempre con Monamur. Il sesto giorno, come d’incanto, il vento si cheta. Decidiamo di uscire sul far della sera: la notte è il momento migliore per la pesca e per stare in silenzio, vicini, a respirare il mare. Al tramonto stiamo chini sulla bacinella, io e Anna, le teste affiancate, le braccia che si sfiorano. Comincio io: – Amo. Una parola difficile-. -Per l’uomo e per i pesci- finisce lei. E’ il nostro piccolo rito portafortuna, una stronzata che Gesuino ha scritto sul legno del molo. Guardiamo sul fondo del catino, osserviamo  i granchi che ci guardano, immobili. Senza dirci nulla prendiamo la bacinella e raggiungiamo la spiaggia. Io ed Anna pensiamo sempre le stesse cose nello stesso istante, ci succede sempre così. Le lenze sono pronte, assicurate alle boe di segnalazione. La barca è sul bagnasciuga, basterebbe una spinta per prendere il largo. La ignoriamo e rovesciamo la bacinella nel punto in cui le onde leggere si adagiano sulla sabbia: i granchi sono improvvisamente liberi, ma non si spostano di un centimetro. E’ normale, pensiamo: la felicità inattesa paralizza. D’improvviso, un’onda più grossa delle li trascina in mare. Scompaiono in un istante alla nostra vista, e nello stesso momento, di sicuro scordano noi e quegli strani giorni di prigionia, dimenticano i fianchi lisci della bacinella: in un istante, si dimenticano l’uno dell’altro. Succede sempre così: arriva sempre un istante a cancellare di colpo il passato. Io ed Anna ci guardiamo. Non abbiamo bisogno d’altro. La felicità non necessita di molto, si accontenta del tutto che per altri è niente. Un’altra onda, diversa da quella che avevamo appena visto ma ugualmente implacabile avrebbe spazzato via anche noi due, di lì a poco, disperdendoci nell’abisso del mondo ignari l’uno dell’altra. Ma quel giorno, ancora, non potevamo saperlo. Così ci guardiamo negli occhi per un istante e rientriamo, abbracciati stretti, verso casa. Li avvisi tu Aurora e Radiolina? Comincia a far buio. Ridiamo come matti, ugualmente. 

I cani


Oggi soffia un maestrale teso, impertinente. Avanziamo sbilenchi, seguendo una lenta traiettoria a zig zag, rannicchiati sul manubrio per offrire all’aria la minore resistenza possibile. E’ l’ultimo tratto di salita, lo sappiamo: sulla destra, la superfice del lago salato, in secca, risplende di un bianco accecante, piatta come un tavolo da biliardo. Ai lati della strada asfaltata, il mondo è giallo. Su ogni cosa si posa come cipria la terra farinosa di questi luoghi, una polvere sottile che il vento solleva in nuvole leggere che poi restano sospese nell’aria come mongolfiere. Sembra non aspetti altro che spiccare il volo, la terra ambiziosa del Sinis. Il paesaggio, qui intorno, cambia continuamente: i venti spostano le dune da un luogo all’altro, cosicchè, da una stagione all’altra tutto è nuovo, differente. Allo stesso  modo i nostri vecchi gareggiano in poesia al bar del paese o alla festa grande di settembre:  imitando il mondo, improvvisano versi con facilità: il fiato è vento che sposta granelli di parole da un versante all’altro di una frase. La stessa storia , ogni volta è una nuova storia. Nell’aria tutto intorno il silenzio è rotto solo dal latrare feroce dei cani di guardia all’ovile. Sono così concentrato sulle pedalate che non mi accorgo che corrono verso di noi, probabilmente aizzati all’inseguimento dal nostro avanzare deciso sulle biciclette. Sto tranquillo, perché il cancello li tiene lontani dalla nostra strada. Quando mi accorgo che il cancello è aperto faccio appena in tempo a gridare: pedala, pedala, pedala! Precedo Annina di qualche metro, per questo mi accorgo prima di lei che i cani, seguendo un sentiero che incrocia la carreggiata, ci taglieranno la strada. Pedaliamo veloci, disperati, ma i cani ci sono addosso, due ai lati, il terzo alle spalle. Penso: puntano alle gambe, ci morderanno per farci cadere, finiranno il lavoro quando saremo a terra. Con la coda dell’occhio noto le zanne bianche tra le fauci spalancate, la bava che cola dalle bocche aperte, i latrare furioso mi perfora i timpani. Anna non ce la fa più. I cani ci sono addosso. Allora molla i pedali, allarga i piedi come fossero ali e fa una cosa che ricorderò finchè campo: urla. Urla Anna, più forte di quel latrare feroce. Urla una cosa strana che suona più o meno così: Mamarua. Forte. Tre volte: Mamarua! Mamarua! Mamarua! Funziona! I Cani si fermano, impietriti. Pedaliamo ancora per qualche metro, quindi ci fermiamo sulla sommità del crinale: il mare alle spalle, le prime case poco lontane, i cani immobili a venti metri da noi e dietro ancora la lunga discesa che porta agli stagni. – Ma, come hai fatto?-. Non lo so, mi dice: una volta ho letto che bisogna urlare forte, più forte del loro abbaiare furioso-. Sorride, Anna, i capelli corti incollati alla fronte dal sudore, il fiato ancora un poco alterato. Rimonta in bici. - Andiamo, siamo quasi arrivati. Spìcciati, che il sole è tramontato. Non mi piace baciarti al buio, dice-.

La gabbianella


Ci guardiamo per tutto il tempo della festa di San Salvatore, senza dirci nulla. Sediamo sulle panchine in fondo alla piazza dello stagno, in gruppo, insieme agli altri. Ci sono tutti: Aurora, Simone, Francesco, Andrea, ma è come se non ci fosse nessuno, tranne noi due. Come se non ci fossero neppure le giostre, le luci forti dei dischi volanti che guizzano sulla superfice lucida della laguna, l’effetto elettronico dei laser posticci, la musica degli 883 sparata a tutto volume dall’autoscontro, come se non ci fosse nemmeno la ruota panoramica, che non avevamo mai visto, qua, nè l’odore dello zucchero filato che si mescola a quello dei muggini arrosto e delle anguille, e da’ la nausea. Perché, se non fosse nausea, cos’è questo languore che dalla bocca dello stomaco scivola fino alle gambe? Perché non riesco ad impedire alle mani di tormentarsi l’un l’altra come due rondini che giocano in volo? Allora mentre gli altri, in gruppo, si muovono verso il tirassegno, io ed Ale restiamo più indietro di dieci passi, e nel punto in cui la strada si biforca, prendiamo a destra, verso la foce. Accade così, senza che ce lo fossimo detti prima, senza che lo avessimo progettato in anticipo: semplicemente, nel medesimo istante, pensiamo la stessa cosa. Sarebbe stato sempre così tra me, Anna Pes detta Carnera e Ale, Facciadicane. Percorriamo il sentiero sterrato lungo il canale profondo che costeggia lo stagno grande, al riparo delle canne schierate fitte come esercito in marcia che ci nasconde alla vista del paese in festa. Di tanto in tanto un ponticello di legno scavalca il fosso e prosegue sospeso sulla laguna, sostenuto dai pali sghembi conficcati nel fango, a fungere da attracco: potremmo sederci lì, a farci tormentare dalle zanzare, guardando il mare accendersi e spegnersi sotto la luce del faro di Capo Grande. Invece proseguiamo, in silenzio, fino al capanno di legno dove la cooperativa custodisce le nasse. Ho un’urgenza nel petto che mi costringe a fermarmi e voltarmi, la schiena poggiata contro l’uscio di legno di quella baracca sghemba. E mentre, senza sapere esattamente che faccio, spingo la porta per entrare, Facciadicane mi abbraccia forte da dietro e mi spinge nel buio. Sarà questa vertigine che tutto confonde, sarà il fiato caldo delle sue labbra sulla nuca, sulle orecchie e sul collo, sarà la sua voce che ripete all’infinito amore mio, amore mio, amore mio, ecco, allora so che non dovrei, ma inarco la schiena e con  una mano costringo il suo bacino a schiacciarsi ancora più forte sulle mie natiche mentre la pressione del suo sesso mi precipita in un vuoto di tempo e di spazio. Infine mi volto, gli sfilo la maglia di dosso e mi libero della mia. Il contatto della sua pelle nuda è una frustata elettrica. E quando, nel buio pesto della capanna, avverte l’odore del mio seno morbido e tiepido, ci si tuffa a capofitto, come una gabbianella di mare sul luccichìo argenteo dei pesci nell’acqua azzurra. 

Il ponte


La vecchia strada che dal paese portava a valle era abbandonata da più di trent’anni. La natura se l’era ripresa a poco a poco e Nino l’amava proprio per questo. Non dimostrava la sua età, il vecchio pescatore: i capelli folti, il volto squadrato, abbronzato come il collo taurino, le braccia vigorose, irrobustite dall’andare per mare, a remi, dal calare e dal salpare le reti, dal lavoro nei campi, quando il tempo metteva al brutto e il mare si faceva lupo e il vento sciacallo. Solo le gambe a volte incerte tradivano la fatica di una vita spesa faccia al maestrale. Era basso, ma la solidità con cui stava al mondo dava l'idea di un nuraghe.

La strada era sempre deserta, per questo Nino si stupì quando notò l’uomo elegantissimo poggiato al parapetto del vecchio ponte sul fiume.

Gli si accostò. I polsini della camicia bianchissima spuntavano dalla giacca di un completo blu, impeccabile. Osservò le mani del giovane, candide, quasi trasparenti, sul cui dorso, come fuoco nella notte, spiccavano due graffi sottili e non poté fare a meno di paragonarle alle sue, che sembravano scarpe di cuoio vecchio.

- Isperdio vi siete? -, domandò, con l’italiano stentato che riservava ai forestieri. Il giovane tacque, osservando i pennacchi di fumo che si levavano qui e là nella vallata. - E’ tempo di potatura: i rami vecchi li bruciamo subito a sennò le piante si malàdiano; se ne accorgono, se non le curi e a dispetto danno olive siccagne.

L’uomo si scosse: - che ore sono?-, chiese.

- Eh boh, io mi regolo con la luce del giorno. Credo che è quasi mesudie -.

- Ho fatto un casino - sbottò il giovane; - gli asset erano tutti sbagliati, non ho tenuto conto dell’outlook sui titoli, ho sbagliato il pricing sui future e ho perso milioni di euro. I clienti si sono insospettiti; ho truccato i rendiconti e per coprire le perdite, ho sottratto i soldi da altri depositi, all’insaputa dei titolari. Sono fottuto -. Mentre parlava si tormentava le mani, che ogni tanto aspergeva di un liquido che a Nino parve disinfettante, dall’odore.

Il vecchio continuò: - dal mese prossimo cominciamo ad arare le vigne, poi decespugliamo che altrimenti il fuoco si mangia tutto. Vieni, Cuccumeu, è quasi ora di pranzo -.

Il giovane fu colpito dalla frustata del suo vecchio soprannome. Nessuno lo chiamava così da secoli. Nino lo aveva riconosciuto, nonostante tutto.

Allontanandosi dal parapetto, il vecchio spinse oltre il bordo una grossa pietra che vi era stata poggiata sopra: cadde nel lago con un tonfo, portandosi dietro la corda alla quale era stata legata.

A Nino ricordò una stella filante, al giovane un grafico. I due restarono a guardare i cerchi che si irradiavano sulla superficie dell’acqua, finché non scomparvero. Si lasciarono il ponte alle spalle e si incamminarono, in salita, verso il paese.

giovedì 23 febbraio 2017

Quotidianità




Fine.

La Luce esplode improvvisa, inattesa. 
Avanza con passo pesante di vento, urla furenti d'aria, tanfo putrescente di morte.
Si dissolve infine, rapida e silenziosa, così come era arrivata.
Solo polvere, bianca, si posa alle sue spalle, sul silenzio del mondo.

Via Satta, da una finestra.

Mi sveglio in un letto che non è il mio, in una stanza che non mi appartiene, in una vita che non conosco.
Mi sveglia la luce livida di un mattino muto di città; una domenica deserta, come sempre accade ogni volta che i negozi sono chiusi.
Ho freddo.
La schiena nuda incollata al muro gelido.
Il braccio destro imprigionato sotto un corpo estraneo e tiepido.
Il cervello pulsa e spinge gli occhi contro un cranio all'improvviso troppo piccolo, la bocca è un impasto metallico di saliva, alcol, sesso, vomito. Nonostante tutto, però, ho fame.
Scivolo oltre le coperte. Le mattonelle ghiacciate sferzano i piedi con frustate gelide di corrente elettrica, dalla punta delle dita all'ultima vertebra della spina dorsale.
Il cielo plumbeo dipinge di grigio il bianco scrostato delle pareti, i poster e le cartoline, e questa galleria di istantanee di luoghi e sorrisi e vite e volti sconosciuti prigionieri dentro celle plastificate di carta fotografica. 
Immagino la vita superstite fuggire via subito dopo lo scatto dell’otturatore; via lontano, a cercare di sopravvivere in altri luoghi e in qualche modo, oltre queste sbarre di nitrato d’argento.
Incatenata ad un istante sigillato da una cornice a giorno, affacciata ad una delle prigioni colorate, mia sorella sorride all’infinito a questa stanza. La sua bocca si tende tra zigomi che sporgono come rocce, in bilico sull’abisso di orbite sprofondate in un viso scolpito dalle ossa del cranio.
Lacrime di pioggia rigano i vetri delle finestre, migliaia di occhi appannati fissi sull'asfalto, aperti sul niente. 
Fisso il cortile interno e i palazzi al di là del vetro.
Incrocio uno sguardo sfocato dalla condensa. Due sagome scure, curve sotto la pioggia sottile, rincasano rapide.
Le luci in strada sono già accese, nonostante sia appena pomeriggio. 
Lampeggianti blu di polizia sfrecciano verso il mare.
Si alza anche lei.
Non so chi sia.
Sento i suoi piedi scalzi sul pavimento, il soffio del suo respiro sulle mie spalle nude. 
- Che strada è quella ? - Chiedo così, giusto per orientarmi. Non so dove mi trovo. 
- E' via Satta-. Le parole le scivolano dalle labbra in un rivolo tiepido di fiato.

La luce arriva prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.

Cercando un puntino in mezzo al mare.

Ogni domenica mattina, appena sveglia, dalle finestre della mia casa nel Borgo cerco un puntino verde nel mare del golfo.
Il puntino è Gesuino. Mio marito.
Non so perché lo faccio.
Forse per abitudine.
Forse per assicurarmi che non affondi insieme a questa vita schifosa, ai sogni di pischella e poi di moglie prefabbricati e sgretolati come i muri di questo quartiere di merda. Ti aggrappi a qualsiasi cosa, per non annegare; e tutto quello che mi rimane, in questo naufragio di vita, è una zattera di marito ubriacone.
A volte lo trovo, Gesuino, in equilibrio precario sopra la barchetta di legno verde speranza che traballa scossa dai flutti e dalle bracciate ampie e vigorose di lenza con cui strappa sparedde dorate e mormore grasse come frittelle al fondale verdastro di Fanghittu, specchio di mare dai confini incerti, mutevoli e indefiniti, persi alla deriva tra il capo Sant’Elia e il molo di levante.
A volte provo pure a raccontarglielo, quando rientra a casa, che l'ho visto dalla finestra. Lui non mi risponde nemmeno e impegna la lingua impastata di Ichnusa in una gimkana catarrosa, trascinando le gambe malferme e disperate fino al divano del soggiorno.
Prima era diverso.
Prima c'erano il lavoro alla Rumianca, le estati al casotto della quarta fermata, le passeggiate in Via Roma e i film all'Ariston la domenica sera.
Poi più niente. Quando la fabbrica ha chiuso, abbiamo chiuso anche noi. Tutto finito, come la liquidazione bastata appena a liberare due figli dal pantano di questa periferia; due figli che ora ci pensano due volte prima di tornare qui ad infangarsi di passato, persi come sono uno dietro l’alta finanza, l’altro dietro le gonne corte.
Adesso vado a servizio da una signora di Castello, una di quelle madame che hanno ereditato da secoli di prepotenza un paio di cognomi e un palazzotto catalano. Non sogno più di andarmene dal quartiere, non sogno più la villetta, la cucina nuova, una messa in piega la settimana come quella gallina della mia padrona. Fatica sprecata.
Il tempo ha lavato via tutto come la pioggia di questa domenica del cazzo.
Tutto, tranne l'odore di piscio assorbito dai muri grigi dei portici sotto casa, museo di scheletri neri di motorini rubati e incendiati.
Sembra una fotografia in bianco e nero, questo quartiere.
Ci puoi trovare tutte le sfumature del grigio. Nient'altro che questo.
Oggi mi sono svegliata presto, come sempre.
Ho rifatto i letti, messo in ordine le stanze, lavato i pavimenti, sciacquato i piatti.
La spesa l’ho fatta all'alba, al mercatino, prima che la piazzetta del borgo si riempisse dei balossi di città.
Al mattino trovo i pesci migliori e le verdure più fresche; le orate scongelate e i muggini puresci li lascio ai signorotti  dormiglioni dei quartieri eleganti.
Sono stanca, ora.
Mi siedo in cucina e mi guardo Buona Domenica in santa pace; nel frattempo faccio due spaghetti e mangio, tanto Gesuino tornerà tardi, ubriaco come al solito.
In televisione urlano tutti, come sempre, tra un balletto e l'altro. Lascio il piatto a metà. Fuori, la pioggia smette di cadere.
Mi alzo per cercare Gesuino in mezzo al mare.
Lo trovo.
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.

Aurora sogna.

Ho fame.
Cerco di non alzarmi dal letto.
Ho paura, una volta in piedi, di non riuscire a stare lontana dalla cucina. 
Mi rannicchio sotto le coperte, le braccia strette più forte che posso intorno al petto.
Cerco di resistere ai morsi del cane rabbioso che mi azzanna lo stomaco.
Io sono più forte, io sono più forte, io sono più forte…
Tento di dormire il più possibile, per non pensare.
Ogni tanto bevo dell'acqua. Ne tengo un paio di bottiglie sul comodino, qui accanto.
Ho letto che il corpo umano può sopportare molti giorni di digiuno. Bere, invece, è indispensabile.
L'acqua mi aiuta a dilatare lo stomaco. A ricucire gli strappi laceranti della fame. Ad ammorbidire questo straccio strizzato che ho in pancia.
C'è silenzio, in casa: papà e mamma devono essere andati al mercatino di Sant'Elia, come ogni domenica, a farsi vendere i muggini pescati nel canale melmoso che attraversa la periferia della città; Alessandro avrà senz’altro dormito da una delle sue donnine, magari dalla collega che gli ho presentato solo ieri sera: una che ha collezionato più uomini che fotografie appese al muro della sua stanza.
Il silenzio dura poco, però, lacerato dall’ululato di una sirena che soffoca in uno stridio di pneumatici e nel fumo bianco delle gomme bruciate. Sento urlare “Polizia” al citofono, giù in strada. Il tonfo cupo del portone precede di un istante uno scalpiccio di passi rapidi lungo le scale; una successione di colpi secchi, un battere insistito di mano aperta squassa una delle porte che si aprono sul pianerottolo, scuote la quiete sonnolenta dell’appartamento accanto al nostro. Due voci nervose interrogano quella che dev’essere con tutta probabilità l’ultima preda femminile del nostro dirimpettaio. Un personaggio che maschera sotto camicia e cravatta il pelo lungo di lupo mannaro: lunga è la notte rischiarata dalla luna piena della new-economy; sotto la luce bianca di un sorriso falso e incantatore svena le malcapitate vittime irretite da percentuali suadenti e da un rassicurante doppiopetto blu. Bancario di merda.
I poliziotti lo cercano. L’amichetta biascica monosillabi.
Lui non c’è, non è in casa. Poco tempo dopo gli agenti se ne vanno. 
Nuovo scalpiccio, tonfo di portone, stridio di gomme, ululato di sirena. Idioti.
Mi alzo dal letto, attraverso questa stanza scura e fredda come il corridoio di un collegio. Le pareti si richiudono alle mie spalle, il pavimento danza come un’onda lunga di marea.
Cammino scalza fino al bagno.
La pelle sotto ai piedi si appiccica un po’ alle mattonelle fredde; dopo qualche passo diventano insensibili. 
Nuda, salgo sulla bilancia. 
Prima un piede, poi l'altro. Vacillo. Mi appoggio al muro per non cadere.
Trattengo il fiato.
Prego, bramo un numero con un’ansia sudaticcia da giocatore d'azzardo. Il cuore accellera i battitiin modo quasi insopportabile.
Rien ne va plus.
Quarantasei, nero, pari.
Speravo quarantaquattro. Bene. Ma posso migliorare.
Dieci passi dal bagno all'andito.
Dieci passi, fino allo specchio grande delle mie brame.
Occhi neri liquidi, acqua scura riflessa dal fondo di un pozzo di orbite vuote, mi riflettono vacua ed evanescente. Ectoplasma di vene blu pulsanti sotto un soffio di epidermide trasparente. Mi piaccio.
Conto le costole come contavo le onde di sabbia sulle dune soffici di Chia spazzate dal maestrale d'inverno.
La pelle del ventre è tesa come il cavo di un equilibrista tra gli spuntoni sporgenti delle ossa del bacino.
Sembro un abito appeso ad un attaccapanni di clavicole.
Mi volto.
Quando la casa è vuota il tempo e lo spazio sono dilatati e immobili. Sto bene. 
C'è una calma piatta di bonaccia estiva, anche se fuori piove.
Leggo un biglietto sul tavolo della cucina. Mamma ha una scrittura ordinata e tonda. Blu.
"C'e' il polpettone in frigo. L'ho conservato per te. Riscaldalo un po’ e finisci di mangiarlo, altrimenti diventa cattivo. Io e papà ci arrangiamo. Baci. Mamma. P.s.: sono o non sono una brava cuoca?"
E’ brava, mamma, non c’è che dire.
Ieri sera ho mangiato quattro fette di quella poltiglia di carne sforzandomi di sorridere.
Mamma era contenta.
Mamma non sa che dopo mezz'ora mi sono infilata due dita in gola e l'ho vomitato fino all'ultima briciola, il bastardo.
Qualche settimana fa ho trovato il coltellino che papà portava in campagna. Una pattadese piccola, manico nero e lama corta lucidata a specchio. Quasi un giocattolo. Il giocattolo serviva a pulire i funghi che raccoglievamo sui monti, a Gutturu Mannu.
Ora ci gioco io.
Di solito incido la carne delle gambe, partendo dalla caviglia. Rampicanti di spirali rosse fino al ginocchio.
Ma solo quando ho molta fame. Il dolore distrae il cane rabbioso dallo stomaco. Lo calma.
Poi mi fascio, e nessuno se ne accorge.

Neanche Mauro se ne accorge.
Quando scopiamo tengo le calze.
Di cotone. Fino al ginocchio.
Gli ho detto che mi eccita e lui è contento. Gli basta.
Mauro ha quarant’anni, ma ne dimostra trenta. Fa un lavoro importante ed è bellissimo.
Mauro me l'hanno presentato sei mesi fa, al Libarium.
Alla selezione per veline.
Il giorno dopo mi ha baciata, sulla terrazza del Bastione di Santa Croce.
Due giorni dopo mi ha scopata. Io l'ho lasciato fare.
Mauro dice che sono bella.
Mauro dice che neanche Melissa Satta a diciassette anni era bella come me. E neanche Giorgia Palmas. 
Dovrei solo dimagrire un po’.
Mauro dice che adesso le ragazze piacciono così, spigolose. Emaciate, ha detto.
Mauro dice che ce la posso fare. 
Io ci credo a quello che dice Mauro. Non mi mentirebbe mai.
Poi lui è un esperto. Nel tempo libero collabora con un’agenzia di modelle qui in città. E' il migliore amico del capo, si conoscono dai tempi del liceo Dettori.
E’ il suo talent scout. 
Il capo, Fabrizio, è un marcio. Ha la testa gigante e lucida, le labbra umide e gli occhi porcini. Il sorriso affilato a lametta. Il maglioncino sempre sopra le spalle. Un gaggio.
Fabrizio ha visto le foto che mi ha fatto fare Mauro. Il book, si chiama.
Ha detto che sto andando alla grande. 
Che se continuo così, se mi comporto bene, tra due o tre mesi faccio il provino a Roma.
Io, con Fabrizio, il capo, mi comporto bene due o tre volte a settimana. Non si sa mai.

Ho le gambe pesanti.
Faccio fatica a scollare i piedi dal pavimento di cucina.
Da tre mesi non ho più le mestruazioni.
Mi si appanna la vista, ogni tanto, ma poi passa.
Dormo sempre, per non pensare.

Appoggio la fronte alla finestra che si affaccia sul giardino.
La gatta, stesa sotto la veranda, conta le gocce di pioggia che orlano i balconi come luci colorate di Natale. Giuditta.
Sorrido al suo ronfare lanoso e caldo di gomitolo.

Il cellulare squilla un po’, prima di smettere.
La luce del lampadario trema appena, prima di spegnersi.
La pioggia scroscia debolmente, prima di gocciolare silenziosa.
Il cielo si apre, in uno sbadiglio di nuvole.
Faccio appena in tempo a vedere la gatta schizzare via veloce, e scomparire in un lampo grigio che sfuma tra i muretti e le ringhiere arancioni.
Un istante primo della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.


Grafici.

- Signor Deiana ? -
La voce alle mie spalle è ferma, ma gentile.
Non li aspettavo così presto. Chissà come hanno fatto a trovarmi tanto in fretta.
Sto fermo, immobile. I gomiti poggiati sul parapetto di calcare bianco della Torre dell'Elefante. Ho tutto il golfo davanti agli occhi. Fisso la Sella del Diavolo, lontana, sfocata da una pioggerella sottile.
- Signor Deiana, per favore -
E' la fermezza ad avere il sopravvento, ora, nel tono. 
-Non le sembra un grafico?-, dico senza voltarmi.
-Come ?-
-Un grafico, dico, la Sella del diavolo, non le sembra un grafico?-.
-Non so, non ci avevo mai pensato-.
-Io si. Me ne intendo, sa? Vedo grafici tutti i giorni: torte, righe, colonne, istogrammi. Li stampo, li analizzo. Li uso come una spada o come un fiore, per ingraziare o maledire, per adulare o minacciare. Per vendere. 
E' il mio lavoro -.  
Mi volto, lentamente.
La voce alle mie spalle è quella di un poliziotto che avrà più o meno la mia età, una quarantina d'anni. Jeans, giubbotto di pelle, maglione grigio a collo alto. Faccia da sbirro. Il suo collega, più anziano, sta due metri più indietro. Non parla. Mi guarda fisso. Fuma. 
-Sono stato in ufficio anche stamattina, lo sa? Anche se è domenica-
-Lo sappiamo, signor Deiana-.
-Ieri sera mi ha telefonato il Responsabile di Mercato, alle sette. Mi ha detto: vieni, è urgente. Sono andato. Ufficio bianco, luce bianca, scrivania bianca, grafici. Molti grafici. Neri. Sparsi sul tavolo. Ha cominciato a parlare nella sua lingua orrenda.
Mi ha urlato che il management aziendale era furibondo. Che la rilevazione dei dati economici di budget redatti dal Business Performance Menagement, evidenziava un gap incolmabile tra i report  e gli schemi di preventivazione finanziaria. Che eravamo stati incapaci di anticipare i trend e di utilizzare gli input in maniera pro-attiva. Che non avevamo condotto nessuna attività di scenario analysis o di stress testing per valutare gli effetti finanziari di opzioni strategiche alternative. Che le operazioni di reporting sull'andamento della produzione e della vendita evidenziavano che lo scostamento dai valori target incide così negativamente sull'outlook dell’area commerciale da pregiudicare persino la performance del nostro benchmark a cinque anni-.
- Le risorse umane sono un branco di cani sciolti: non vendono un cazzo. I clienti vanno e vengono dalla filiale come se fosse una scampagnata a Monte Arci. I venditori devono essere aggressivi, chiaro? Devono avere la bava alla bocca! E devono fare in modo che la bava non si veda, quando sorridono; perché mica se ne dimenticano di sorridere vero? Oppure gli devo spaccare il culo? Non è possibile che un cliente si alzi dalla sedia senza avere uno dei nostri prodotti ad Alto Valore Aggiunto! Sai quant'è l'up front sulle ultime obbligazioni, coglione? Sai quanto ci guadagnerebbe la tua agenzia di merda? E allora VENDILE, NON ME NE FREGA UN CAZZO VENDILE ANCHE AI MORTI MA VENDILE, CHIAROOOO?-.
- Ha concluso il comizio in un delirio di decibel. Io ho pensato: ma come parla? Come riesce a violentare una lingua in questo modo barbaro? Questo bellimbusto istruito da nient'altro che gazzette dello sport e manuali per imbonitori travestiti da "dispense formative", come fa, ad esprimersi in questo modo?
Il problema era questo ha capito ora, agente? Non stavamo vendendo un cazzo. Eppure la nostra non è un’azienda in crisi, anzi, è la prima sul mercato. Gli utili sono alle stelle, 1,75 miliardi di euro solo nel primo trimestre dell’anno, ma evidentemente non erano sufficienti, non ne avevano ancora abbastanza. Mi ha lanciato un mazzo di fogli zeppi di dati, il capo: -adesso te li studi, e ritorni domani mattina con una strategia convincente. Alle otto, che poi ho l'aereo per Milano. Fa in modo che sia credibile perché altrimenti ti sbatto così lontano da casa tua da farti dimenticare persino il colore del mare-.
- Mi sono alzato e sono tornato a casa.
Ho esaminato grafici per tutta la notte, senza riuscire a cavarne piede. 
Quando sono stato assunto avevo 25 anni. Non era il lavoro che sognavo di fare e per il quale avevo studiato all’università, ma a quel tempo mi era sembrato un impiego sicuro e ben pagato. Con la stessa velocità che ha impiegato la mia laurea a sprofondare nel cesso, ho scalato i gradini della gerarchia bancaria, fino al ruolo di marketing manager di filiale. Che tradotto significa: vendere. Anzi. Costringere i clienti a comprare e i tuoi collaboratori, il tuo team, a vendere. Quando non basta la verità, cioè quasi sempre, si mente; quando non bastano le buone maniere, si minaccia. E' facile.
E' facile, ma io non ce l'ho fatta più. Ero nauseato dai sorrisi finti e di circostanza, dagli abiti firmati comprati a rate, dalle cene aziendali, dai viaggi premio, dall'ignoranza, dall’immoralità, dal profitto ad ogni costo, dalla sottomissione servile, dalla superficialità, dalle minacce, dalle lusinghe, dalle ipocrisie.
Quando sono tornato in ufficio, stamattina, il capo mi ha accolto con un ghigno supponente dipinto sulla faccia. Sbarbato, pettinato, laccato.
Mi ha detto: - sentiamo-.
Io non ho detto niente. Mi sono alzato e ho fatto tre giri intorno alla scrivania. Non se lo aspettava: ha smesso di sorridere. Forse cercava di ricordare quale capitolo del manuale di Tecnichedicomunicazionecommercialenonverbale avrebbe potuto spiegare il mio comportamento. Forse tentava di ricordare qualche risposta già pronta predisposta preconfezionata da riscaldare e servire. Il Mercato non improvvisa.
Ho preso il giubbotto.
-Me ne vado-, gli ho detto.
Mi ha lanciato un: - ma dove vuoi andare, deiana ( per cognome, minuscolo )-. 
- Un secondo solo, mauro (per nome, minuscolo); torno, e te lo spiego-.
Mi sono messo il giubbotto e sono tornato indietro. Non ha parlato. Non si e' chiesto niente. Non ha fatto in tempo. Gli ho spiegato quello che l’esperienza evidentemente non gli aveva insegnato, mentre l'acciaio lucido delle forbici gli trapassava il collo. 
Avrebbe dovuto saperlo meglio di me: il mercato è imprevedibile.
Ha sollevato appena un braccio, stupito del liquido rosso scuro che sgorgava a fiotti, stupito di quel sangue, stupito che fosse il suo. 
Gli schizzi hanno disegnato sul muro dei bellissimi grafici.
Strano vero?
Ma voi questo lo sapete già. I vostri colleghi avranno già fatto i rilievi, il magistrato avrà già ordinato la rimozione del cadavere.
La banca avrà già ridipinto i muri e nominato un nuovo responsabile.
Il mercato reagisce in fretta-.

-Andiamo?- mi dice lo sbirro.
-Andiamo, andiamo. Vorrei solo chiederle una cortesia.-
- Dipende-
-Mi lasci guardare il golfo. Solo un minuto. E' bello anche così; anche sotto questo cielo grigio-.

La pioggia scroscia debolmente, prima di gocciolare silenziosa.
Le nuvole si schiudono in un sorriso timido di cielo azzurro.
Penso alla ragazzina che ho lasciato addormentata in casa mia, questa mattina. Non so neanche come si chiama. Quanti inganni.
Penso ad Aurora, la figlia dei miei vicini, e un po’ mi dispiace, di averle ammazzato il “fidanzato”. Quasi mi è venuto un colpo, però, quando ho visto quel maiale riaccompagnarla a casa. In fondo, ho fatto un favore anche a lei.
Guardo i monti di Capoterra, la laguna di Santa Gilla, e una barchetta verde ferma in mezzo al mare, tra il molo di levante e capo Sant' Elia; ferma nello stesso punto in cui insieme a babbo e mio fratello pescavamo le sparlotte: a Fanghittu. 
Mi volto, rapido, e sparo.
Non se lo aspettavano.
Becco lo sbirro parlante in pieno petto. Si piega sulle ginocchia. Guarda la macchia rossastra che si allarga sul maglione grigio. Guarda me, incredulo. Sorride, come se fosse uno scherzo.
L'altro, il muto, estrae la pistola e fa fuoco. 
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.



Pioggia.

- Che mestiere di merda!-.
Sono vent’anni, che lavoro sotto la pioggia.
All'inizio, quando ero agente scelto, ai posti di blocco; e durante le guardie, di notte per giunta. 
Dici: va beh, è l'inizio.
L'inizio un cazzo.
Adesso, da ispettore, non è cambiato niente.
E' da stamattina che giriamo sotto questo diluvio. Per cosa, poi?. Tutto per beccare un coglione che ha fatto fuori il suo capo. 
Di sicuro io, invece, come minimo mi becco una bronchite. Almeno me ne sto in casa senza fare un cazzo. Magari in compagnia di una di quelle troie che abbiamo fermato l'altra sera in viale Monastir e che abbiamo rilasciato dietro "cauzione".

Siamo entrati negli uffici di una banca, oggi, all’interno di un palazzo completamente bianco: sale bianche, tappeti bianchi, mobili bianchi. Tutto lindo e luccicante, tranne la stanza della direzione: sangue, ancora fresco, colava dalle pareti sul pavimento in lacrime spesse, macchiando la moquette azzurra di larghi lividi viola; le mura sembravano un dipinto astratto, tinte com’erano di quel rosso cupo, denso.
L'autore dell'opera d'arte era stecchito sopra una poltrona di pelle nera: un paio di forbici conficcate cinque centimetri sotto l’orecchio sinistro, non gli dovevano aver lasciato neanche il tempo di pregare.
Parte del sangue aveva inzuppato l’abito di marca. Il resto era ovunque; a parte l'affresco sul muro, gli schizzi avevano raggiunto la scrivania, il lampadario, e i fogli zeppi di grafici sparsi sul tavolo e sul pavimento. La poltrona invece era quasi intatta, protetta dalla grossa mole del cadavere; ho pensato di portarmela via, per quanto era bella: girevole, schienale alto, braccioli morbidi. Magari ce l’avessimo noi, in Questura.
La guardia giurata all'ingresso, poco più intelligente di un lombrico, ci ha riferito di aver visto entrare solo una sola persona, un collega del morto, verso le otto. Ha sentito strillare, ma non si è preoccupato più di tanto: - urlano tutti come pazzi, qua dentro, soprattutto quello lì -, ha farfugliato indicando il lenzuolo bianco che ricopriva a stento il corpo. Ci siamo fatti dare il nome dello sforbiciatore e mezz' ora dopo eravamo già all’interno del suo appartamento, ad interrogare una ragazzina appena maggiorenne, ancora mezzo addormentata, che ha farfugliato tra un monosillabo e l’altro di conoscerlo appena. Troia. Unico indizio: le viuzze strette di Castello, il quartiere-fortezza costruito dai dominatori pisani e catalani, dove il tizio, a detta della troietta, amava passeggiare. 
Raccattiamo due fotografie del nostro uomo e partiamo. Parcheggiando l’auto sotto le mura bianche della città vecchia, quasi investo due fidanzatini che escono con la faccia sognante da un Caffè alla moda. Mi danno la nausea, questi idioti. Entriamo nel quartiere fortificato dalla Porta dei Leoni.
A piedi.
Sotto la pioggia.
Il mio collega non parla. E' più anziano di me, più vicino ai sessanta anni che ai cinquanta. Non l'ho ancora inquadrato bene, è da poco che ci hanno messo insieme. So solo che non parla.
Tento di fare un po’ di conversazione.
E dire che ero arrivato in Sardegna pensando di godermi un po’ di sole!-.
Niente, silenzio. 
- Si stava meglio a Genova. Bella città, belle puttane. Quel cazzo di G8 di merda ha rovinato tutto. Prima ci hanno ordinato di pestare. E noi cosa abbiamo fatto? Pestato. Con impegno, dedizione e spirito di corpo. Io, poi, non mi sono risparmiato. Sono un tipo scrupoloso, gli ordini mi piace eseguirli alla perfezione. E quando si tratta di comunisti, anarchici, froci, negri, puzzoni, fannulloni, pacifisti del cazzo e punkabbestia, beh, come dire, mi inviti a nozze.
Mi avevano assegnato a Bolzaneto, dove i colleghi scaricavano tutte quelle merde, già ammorbidite per benino. Io facevo parte del comitato di accoglienza. Il benvenuto consisteva sostanzialmente in un'altra razione di botte, giusto per fargli capire che non erano più in corteo, liberi di rompere i coglioni. 
Comunque. 
Per una settimana, tutti contenti. Politici e superiori. Poi, dopo, apriti cielo. Forse abbiamo sbagliato. Siamo stati troppo buoni, ci siamo distratti. Avremmo dovuto pestare anche tutti i fotografi e tutti i cameraman, spaccare ogni macchina fotografica e tutte le telecamere. Perché dopo, le immagini, le hanno viste tutti. E quei bastardi che sono riusciti a uscire sani di mente dalla caserma, e dalla scuola Diaz, hanno pensato bene di coalizzarsi e denunciarci ai loro compagni magistrati.
E' successo un casino. I nostri superiori, quelli non inquisiti a loro volta, ci hanno scaricato. Bella riconoscenza!
Comunque.
Mi sono beccato un procedimento penale per lesioni volontarie, percosse, tentato omicidio, sequestro di persona e tentata violenza sessuale. Una ventina di pidocchi comunisti, italiani e stranieri, mi hanno riconosciuto. 
I miei capi mi hanno consigliato di cambiare aria -.
L'aria è cambiata. Il clima, no.
Pioggia. Sempre, solo pioggia.
Il collega, il muto, si ferma, mi guarda. 
Sembra voglia dire qualcosa, finalmente.
-Sei un povero stronzo-, sibila.
Ma vaffanculo. Mi volto e continuo a camminare. Ci manca solo un altro casino.
Per fortuna lo becchiamo subito, il tizio che cerchiamo.
Sulla terrazza della Torre dell'elefante, poggiato al parapetto. Fissa un punto lontano, in direzione del Poetto.
Tento un approccio morbido.
Deciso, ma gentile. Da manuale.
- Signor Deiana ? -
Niente. 
Cominciano a girarmi i coglioni.
Ritento.
- Signor Deiana, per favore -
Finalmente parla.
Mi chiede se ho mai pensato che la Sella del Diavolo potesse sembrare un grafico. 
Ripenso ai fogli schizzati di sangue sparsi per tutto l’ufficio e ne deduco che: primo, l’uomo che ho di fronte è pazzo; secondo, che un ragioniere schizzato è meno pericoloso di una banda di narco-trafficanti armati; terzo, che se sto al suo gioco, magari, tra cinque minuti siamo tutti in macchina, al calduccio.
Gli rispondo che non mi era mai venuto in mente, che potesse sembrare un grafico.
Funziona: lentamente, il tipo si volta.
E’ giovane, come me. 
Mi racconta del suo lavoro e di tutte le minacce e i soprusi che ha dovuto sopportare dal suo capo, anzi del suo ex capo, ormai.
Mi sta simpatico, in fondo; ha fatto bene ad ammazzare quella faccia di merda. Io avrei fatto lo stesso, al suo posto, e per molto meno.
Mi chiede di lasciargli guardare il panorama. - Solo un minuto -, dice.
Glielo concedo
Da Buoncammino, tanto, non vedrà nulla per chissà quanto tempo.
Ha ragione lui, è bello quassù. Tutta la città è adagiata ai nostri piedi.
Guarda verso Capoterra, poi fissa una barchetta verde appena fuori dal porto.
La pioggia scroscia un po’, prima di gocciolare silenziosa. 
Si gira di scatto.
Un colpo tremendo al petto mi spinge tre, quattro passi indietro.
Anticipa di poco il boato dello sparo.
Le orecchie fischiano impazzite e tutti i rumori di fondo svaniscono. Resta solo un ronzio ovattato.
Un bruciore sottile si allarga in un calore liquido, come questa macchia rossastra che mi sta inzuppando il maglione.
Le ginocchia cedono di schianto.
Penso: non può essere. 
Penso: ora mi alzo.
Penso: mi uccide questo killer in giacca scura e jeans sdruciti, faccia pulita da laureato Bocconi. Un bancario.
La cosa mi fa ridere.
Lo guardo.
Osservo il suo braccio teso e la mano grassoccia che regge la pistola.
Il calore mi abbandona, come acqua tiepida che defluisce dallo scarico di una vasca da bagno.
Penso: finita.
Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.

Dieci fotogrammi.

Primo fotogramma. Un caffè del centro, elegante, una domenica di pioggia. Legno, marmi, tavolini tondi di ferro battuto. Jazz, Theo Monk. Mattino. Primo mattino. Penombra, silenzio. Sbuffi della macchina da caffè. Tintinnare di cucchiaini sulle tazzine. Odore buono, caldo, dolce. Giornali. Occhi assonnati.

Secondo fotogramma. Lei. Entra. La riconosco subito. Dai capelli, ricci. Dal taglio degli occhi. Dalla bocca. Dai denti. Sono passati dieci anni. Da quando se ne è andata. Non l'avevo più vista. Ma è lei. E' sempre bella.

Terzo fotogramma. Si siede al mio tavolo. Dieci anni coperti da cinque passi. Parliamo, ma non più di tanto. Mi trema la voce. Non voglio che se ne accorga. Non voglio sapere dove è stata, e con chi, cosa ha fatto. Non mi interessa. Mi importa solo che fuori piova, e che si stia bene, al caldo, qua dentro. Mi importa solo scoprire che il tempo non cambia il colore degli occhi, così come cambia quello dei capelli.
Non parla molto neanche lei. Le trema la voce. Ha paura che me ne accorga.

Quarto fotogramma. Usciamo. Un’auto della polizia quasi ci investe. Due agenti s’incamminano rapidi verso il Castello. Uno di loro mi guarda storto. In macchina, finestrini chiusi. Vetri rigati di pioggia. Polvere. Fabrizio De Andrè.

Quinto fotogramma. Un palazzo del centro. Uno sguardo sconosciuto e assonnato mi fissa, protetto da un vetro appannato. Dentro casa: un corridoio, buio. Luce spenta per paura di svegliarmi. Ho una mano dietro la schiena, che tiene la sua. La guido. Lei, alle mie spalle, mi segue. Docile. Si fida. Lei sa chi sono. Io, sono anni che non lo so più, chi sono.

Sesto fotogramma.
Il letto è sfatto. Basso, di legno scuro, orientale. Lenzuola giallo ocra. E amaranto. Libri sui comodini. E per terra. Vestiti sparsi. Il letto è freddo. Lei è sopra di me. Bianca. Liscia. Morbida. La riconosco subito. Dai capelli, ricci. Dal taglio degli occhi. Dalla bocca. Dai denti. Sono passati dieci anni. Da quando se ne è andata. Non l'avevo più vista. Ma è lei. E' sempre bella.

Settimo fotogramma. Le scivolo dentro in un soffio. Inspira. Si beve d’un fiato tutta l'aria di questa stanza. Quest'aria ferma. Immobile, ad aspettare. Stringe le palpebre. Poggia la testa tra la mia spalla e il collo. I suoi capelli addosso. Lunghi. Mi fanno il solletico. Li respiro. Si muove piano. Liquida. Si adatta ad ogni incavo del mio corpo. Respira forte.

Ottavo fotogramma. Con le mani intorno alle sue spalle, tra i capelli, dietro la schiena, sui fianchi. Intreccio le braccia. La abbraccio più forte che posso. Si muove veloce. Sempre più veloce.

Nono fotogramma. Fermi. Immobili. Ansimiamo. Il cuore impazzito contro lo sterno, sotto un lenzuolo profumato di pelle bianca.

Decimo fotogramma. Palpebre pesanti, occhi socchiusi. Ultimo pensiero, chissà perché: la barca di legno di papà, verde speranza. Chissà se è uscito per mare, oggi. Ci addormentiamo.

Un istante prima della luce bianca, prima dello schianto assordante dell'aria, prima del calore, prima del vento, prima della pioggia bianca di polvere.
Prima del silenzio.


Inizio.

La Luce arriva improvvisa, inattesa. 
Avanza con passo pesante di vento, urla furenti d'aria, tanfo putrescente di morte.
Si dissolve infine, rapida e silenziosa, così come era arrivata.
Solo polvere, bianca, si posa alle sue spalle, sul silenzio del mondo.

Un millennio più tardi, dove un tempo sorgeva La Città, al centro della strada larga che portava verso il mare, un fiore spunta tra le crepe dell'asfalto.
Il primo, dopo mille anni di polvere.

Sotto, la terra brulica di vermi.

Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...