giovedì 3 maggio 2018

Storia di tre biciclette e del mondo di prima




Ferragliosa nel Mondo di Prima
Il primo a vederla, semisepolta nella battigia quasi fosse lo scheletro di una balena, fu Puncia. Chiamò gli altri e insieme si radunarono attorno a quella carcassa arrugginita, rosicchiata dal mare; neri com’erano di sole sulla pelle vestita di niente parevano moscerini attratti da un frutto abbandonato a marcire. In pochi minuti la liberarono completamente dalla sabbia. La guardarono in silenzio, incapaci di dargli un nome, finchè Pilu non disse soltanto: andiamo. Nessuno ebbe bisogno di chiedere dove.
Il Vecchio li stava aspettando. La notte prima aveva sognato Occhidibosco, vecchia come non aveva fatto in tempo a diventare: lei lo aveva guardato dall'abisso dei suoi occhi senza età e gli aveva detto soltanto: «vedrai, domani, i bambini, vedrai, amore mio...», lasciando la frase a metà come era solita fare per l'ebrezza delle cose importanti da dire. Così non fu colto di sorpresa dal vociare festoso che annunciò l'arrivo dei ragazzini prima ancora che fossero visibili agli occhi, come accade con le grida di rondine e la primavera. Si finse occupato, volgendogli le spalle fin quando non furono vicini un passo. Udì il suono metallico di un oggetto scaricato sulle pietre. A quel punto si voltò e lanciò uno sguardo al garbuglio di ferri ritorti che era stato condotto al suo cospetto, distogliendolo subito per paura che ci restasse impigliato come le reti da pesca sul fondo roccioso di Perdamala. In risposta alla domanda muta che veniva dalla masnada vociante sentenziò: «bicicletta». Nient’altro.
Al suono di quella parola sconosciuta, i ragazzini, d’improvviso, tacquero. Era quello che aspettava. Trasse un respiro profondo e cominciò: «Ferragliosa la chiamavano così perché era nera di ruggine e faceva il rumore di una catena di nave trascinata sugli scogli. Controvento perché la prima volta che venne usata - la mattina di un 25 dicembre gelido di schiuma di mare - soffiava un maestrale così impetuoso da spazzare via le case di giunco, ma non loro tre, chini a sbuffare sui manubri per la fatica di pedalare faccia alla bufera. Raggidisole invece, aveva le ruote cromate e sparava riflessi accecanti come luci di giostra perfino sotto il sole spietato di luglio. Usavano le biciclette per venire qui, alla Casa del Drago».
Quando il Vecchio raccontava le storie del Mondo di Prima, i bambini trattenevano il fiato.
Lo temevano, perché si diceva mangiasse serpenti vivi e scarafaggi ma non c’era nessuno, su quella striscia di terra scampata al Disastro, che conoscesse più storie di lui, sul Tempo Andato.
«Lo sapete perché questo posto si chiama Casa del Drago, vero?»
I nasini fecero su e giù nell’aria muta.
«E perché?» chiese.
«Perché quando tu eri piccolo ci viveva un drago gigantesco che buttava tutto sottosopra e con le unghie graffiava le rocce. Come fai tu quando ti arrabbi», disse un tizio magrissimo che tutti chiamavano Stoccu.
Risero tutti, pure il Vecchio, che abitava un angolo di quella cava dismessa, scavata sulla cima del promontorio molti anni addietro. Ora somigliava ad una piscina in rovina per via della pianta rettangolare, delle pareti simmetriche e verticali, del fondo piatto.
«E prima del Drago? Chi c’era prima del Drago?», strillò Blu, che di fare domande non si stancava mai.

«Prima c’erano i mostri meccanici con le braccia a motore e la testa di vetro, i denti aguzzi di metallo, le zampe cingolate e il cuore a gasolio, affamati di uomini», rispose l’uomo.
Sui fianchi del fossato si potevano in effetti ancora distinguere le ferite procurate al monte dalle pale meccaniche e dai dischi d'acciaio che strappavano la pietra al ventre bianco della scogliera e la sezionavano in blocchi più piccoli, adatti a costruire case capaci di resistere alle folate furiose del Vento del Nord. Gli operai che ci avevano lavorato avevano abbandonato le barche al sale e il mestiere di pescatori ai ricordi, in cambio di abiti asciutti e di un salario sicuro. Quello era stato il primo sentiero sbagliato lungo il cammino del loro smarrirsi: gli uomini del mare, sulla terraferma, non sanno mai da che parte andare.
«Sì, ma come era fatta una bicicletta?» chiese ancora Blu. Nessuno dei bambini in effetti ne aveva mai vista una, allora il vecchio cominciò a descriverne ogni parte, il manubrio, il telaio, il sellino: «…e poi c’è la catena che serve a far girare le ruote. Per farlo bisogna usare i pedali, che questo rottame non ha più», concluse. Quelli lo guardarono come quando aveva cercato di spiegare <+corsivo base>aquilone<+tondo base> e c’era voluta quasi una settimana, finché non gli era rimasta altra scelta che costruirne uno. Si accorse che non avevano capito nulla, meno che mai cosa fossero i pedali, allora si alzò e usando un pezzo di carbone prese a disegnare le tre biciclette  sulla parete della cava. Le fece grandi, in modo da poterne evidenziare più facilmente i dettagli. Quando mancavano soltanto i pedali, si rivolse nuovamente ai piccoli in ascolto: «I padroni di Ferragliosa, Controvento e Raggidisole erano Facciadicane, Cuccumeu e Carnèra. Non erano i loro nomi di battesimo, ma tutti a Cannestorte li chiamavano così da tanto di quel tempo che in pochi ricordavano quale fosse quello vero, di nome». Accanto alle bici abbozzò una sagoma tonda, con le gambette corte: «Cuccumeu era grassottello e non dormiva mai, come le civette». I bimbi risero, anche se le civette facevano una paura tremenda, bianche come fantasmi nella notte senza luci. «Facciadicane invece, aveva un naso grosso schiacciato in mezzo a due guance grassocce e quando si arrabbiava, ringhiava, come fosse un bulldog. Carnèra invece, aveva i capelli da maschio e le ginocchia sempre sbucciate, perché portava la gonna corta, ma se osavi chiamarla femminuccia ti colpiva con un pugno fortissimo che ti lasciava morto in terra come quando si beve il succo dell’agave». I bambini risero moltissimo, perché il Vecchio si prendeva delle gran ciucche, con il succo d’agave.

Nel disegno, Facciadicane, Cuccumeu e Carnèra tenevano le mani allacciate. «Non avevano paura di nulla, ma della Casa del Drago sì. Per questo quando venivano qui a giocare si prendevano per mano. Per farsi coraggio. Per ciascuno gli altri due erano come i pedali della bicicletta. Senza i pedali non si va avanti. Senza, non si riesce a stare in equilibrio e resti fermo a guardare gli altri passare. Quando non sai dove poggiare i piedi, cadi. Sempre. Non c’è nulla da fare».
Soltanto allora aggiunse al disegno il dettaglio mancante. «Capito, ora?».
Nuovo movimento di nasini nell’aria. Questa volta però, da sinistra a destra. Da destra a sinistra. «No».
Solo Blu ebbe il coraggio di chiedere quello che tutti stavano pensando: «Ma dove finiti quei tre? Erano amici tuoi?»
A quel punto il Vecchio si voltò e dandogli le spalle disse soltanto: «Non vi interessa, andate via!». Sembrava arrabbiato ma loro lo sapevano che scherzava. I bambini si arrampicarono lungo pareti della cava e tracimarono oltre i bordi, sciamando in una nuvola di polvere e grida che si dissolse nella quiete immobile della fine del giorno. Rimasto solo, il Vecchio prese a cancellare il disegno che aveva tracciato. Ormai sicuro di non essere visto, piangeva.
Lanciò un ultimo sguardo a ciò che restava della bicicletta. Sul silenzio perfetto della cava di pietra, sul rottame abbandonato lì accanto, la voce di Facciadicane si posò leggera come una carezza di vento.
«Ciao Ferragliosa», disse.







Controvento, Ferragliosa e Raggidisole in una foto del Mondo di Prima


La Casa del Drago






                                                                    

Non c'è posto.

Accosta la barca al pontile. Si attarda sulle cime d'ormeggio, prima a poppa, poi a prua, assicurando l'imbarcazione al molo con mo...